mercoledì 27 ottobre 2010
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Diceva un noto editorialista americano del passato che «le elezioni sono vinte dai candidati principalmente perché la maggior parte della gente vota contro qualcuno e non a favore di qualcuno». Se due anni fa la vittoria di Barack Obama aveva contraddetto la massima di Franklin P. Adams (a meno di considerare McCain un fantoccio del non rieleggibile e ormai non più amato Bush), le consultazioni di "medio termine" che si svolgeranno martedì prossimo hanno tutte le caratteristiche per confermare la regola. Stavolta sarà il presidente in carica l’obiettivo degli scontenti, a motivo di una crisi che continua a far sentire i propri effetti su molta parte della popolazione americana.Il bilancio del primo biennio democratico alla Casa Bianca, anche rispetto a proclami e aspettative, non è certo disastroso. La storica riforma dell’assistenza sanitaria, il piano di rilancio dell’economia da quasi mille miliardi di dollari, il salvataggio dell’industria automobilistica, l’avvio della riforma del sistema finanziario di Wall Street... Ma il verdetto delle urne per il presidente, e il suo partito, arriva troppo presto. La nuova copertura medica entrerà in vigore (forse, dati anche i ricorsi giudiziari che cominciano a essere accolti) tra anni, le misure economiche hanno probabilmente evitato disastri peggiori senza però dare ancora il "la" alla ripresa e alla creazione di posti di lavoro, i "signori della Borsa" sembrano già riemersi con il loro potere e i loro privilegi.Alla difficoltà delle condizioni materiali si è poi sommato l’emergere di una nuova temperie culturale, magari effimera eppure oggi sufficientemente forte. Che ha nei "Tea Party" una componente, sebbene non l’unica. Quella che Sarah Palin definisce nei suoi comizi "Real America", la pancia del Paese secondo gli avversari, è più esattamente una composita galassia che sente come convincente il messaggio lanciato dai nuovi protagonisti del fronte repubblicano: uno Stato meno presente e invadente (che pretenda meno tasse e sia meno indebitato), soprattutto nel momento in cui non si dimostra capace di affrontare i grandi problemi del momento. Va da sé che Obama non è un socialista, né ha tradito la Costituzione. Un forte radicalismo ha contagiato in questa fase anche la scena politica americana. Ed eccessi si registrano da entrambe le parti. Troppo intellettualistico e sganciato dal sentire profondo della nazione è il Partito democratico che conquista i ceti urbani ma trascura la sensibilità patriottica e religiosa dell’enorme "provincia". A spingere, sui palchi o dietro le quinte, si muovono anche forti interessi. La campagna elettorale ha toccato il record di due miliardi di dollari di spesa complessiva; anche la grande finanza che non vuole farsi accorciare le unghie dalla Casa Bianca punta sul cambio di maggioranza al Congresso, agganciata al carro dei populisti alla Glenn Beck, a parole suoi nemici. Ne uscirà probabilmente una Camera guidata da un eterogeneo arcipelago repubblicano, diviso tra posizioni moderate classiche e nuovi estremismi demagogici, mentre il Senato potrebbe rimanere di misura ai progressisti.I grandi programmi obamiani sarebbero dunque al capolinea, con la Casa Bianca costretta a patteggiare su tutte le iniziative legislative. La svolta verde in tema di energia e limiti alle emissioni nocive non vedrà la luce, mentre sull’emigrazione non si parlerà più di sanatorie e forse prevarrà una linea di fermezza con gli irregolari. Sulle materie bioetiche alcuni strappi permissivi potrebbero, peraltro, venire ricuciti. Se nell’ultima settimana di appelli e dibattiti non sarà ribaltata la tendenza emersa fino agli ultimi sondaggi disponibili, lo scenario interno americano andrà di certo a complicarsi, in attesa che lo schieramento conservatore veda emergere al suo interno l’anima prevalente e le dia incarnazione nello sfidante per le presidenziali del 2012.
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