Genocidio armeno: ora di verità e di scontento
giovedì 31 ottobre 2019

Se fossero cittadini della Turchia, 405 americani sarebbero oggi in guai seri. Tanti sono, infatti, i deputati che, sui 435 totali e quindi in maniera del tutto bipartisan, hanno votato perché le stragi di armeni compiute dagli ottomani nel 1915, con oltre un milione e mezzo di vittime, siano riconosciute come un "genocidio". Parola che le autorità turche non vogliono sentir pronunciare. Mai. In nessun contesto.

Tanto che l’articolo 301 del codice penale nazionale prevede l’arresto e due anni di carcere per chi «offende lo Stato turco», in quella che pure è la versione riformata e mitigata nel 2008 di un articolo che invece prevedeva l’offesa «dell’identità turca». In questa tagliola nel 2005 incappò persino Orhan Pamuk, il più grande scrittore turco, l’unico premio Nobel per la letteratura del Paese, colpevole di aver pronunciato la parola proibita in un’intervista a una rivista svizzera.

I 405 deputati invece sono americani e hanno potuto decidere nel relativo agio di una piena democrazia. Nondimeno il pronunciamento è clamoroso e rovescia la lunga abitudine americana di aggirare il problema in omaggio al rapporto strategico con la Turchia, che per decenni è stata un’alleata decisiva, anche in seno alla Nato. Barack Obama aveva promesso di riconoscere il genocidio degli armeni nel 2008, durante la sua prima campagna per la presidenza, ma una volta eletto non aveva dato seguito concreto alle affermazioni di principio. Donald Trump aveva parlato di «atrocità di massa» pochi mesi dopo essersi insediato alla Casa Bianca, nell’aprile del 2017, ma si era ben guardato dall’usare il termine "genocidio".

Adesso si cambia. E la svolta americana aggiunge un peso enorme alla non foltissima lista (29 Paesi) dei Paesi che hanno invece riconosciuto il genocidio. Lista di cui, accanto a Germania, Francia e Russia, fanno parte anche l’Italia e la Santa Sede, che ha sopportato in tempi recenti i tentativi di intimidazione che i vertici della Turchia di solito riservano a chi non si adegua al loro revisionismo nazionalista. Tipicamente, la convocazione dell’ambasciatore altrui e il ritiro del proprio. Come avviene ora con gli Usa. E come appunto avvenne quando papa Francesco, nel Messaggio agli armeni del 2015, nel centenario appunto del genocidio, citò la Dichiarazione comune di Giovanni Paolo II e del patriarca Karekin II del 2001 per ricordare che l’immenso massacro degli armeni di un secolo prima era «generalmente definito come il primo genocidio del XX secolo».

Piacerebbe a tutti poter credere che i deputati americani abbiano deciso di voltar pagina in seguito a una riflessione storica e morale. Avendo magari ascoltato la voce dei gruppi di pressione armeni che, negli Usa, alternano alla forza dei documenti e delle testimonianze le prese di posizione di stelle e stelline della musica e del cinema. E in parte sarà senz’altro così. È impossibile, però, non scorgere anche la più vasta filigrana politica del pronunciamento parlamentare.

È grande negli Usa, soprattutto negli ambienti diplomatici e militari, lo scontento per le recenti decisioni di Donald J. Trump che, ritirando i soldati dal Nord Est della Siria, ha di fatto "invitato" Recep Tayyip Erdogan ad attaccare i curdi del Rojava. A tali ambienti poco importa che il capo della Casa Bianca abbia altri obiettivi strategici, per esempio contenere l’influenza iraniana, in omaggio ai quali nelle stesse ore ha rinforzato con migliaia di soldati le guarnigioni di stanza in Arabia Saudita. Per molti americani è inaccettabile che siano stati scaricati i curdi, alleato decisivo nella lotta contro il Daesh, e che nello stesso tempo si sia offerta alla Russia di Vladimir Putin l’occasione per espandere ancora il proprio ruolo in Medio Oriente.

Non a caso, le risoluzioni parlamentari sono state in realtà due. Quella sul genocidio e quella in cui, con un consenso di pochissimo inferiore, si chiede all’Amministrazione di adottare sanzioni punitive nei confronti dei dirigenti turchi. Il tutto alla vigilia della visita di Stato di Erdogan a Washington che era prevista per il 13 novembre ma che ora, a giudicare dalla reazione dello stesso Erdogan («Non ho ancora deciso») e del suo ministro degli Esteri Cavusoglu («Una decisione insignificante»), pare fortemente a rischio. Per 'The Donald', che dopo l’attacco turco aveva varato un pacchetto di flebili sanzioni quasi subito ritirate, è un momento di grande imbarazzo.

Pare evidente, infatti, che i fatti siriani delle ultime settimane siano il frutto di una triangolazione Usa-Russia-Turchia che la Casa Bianca è sola a difendere. Ora Trump deve scegliere tra la critica del Congresso che per di più sta per decidere l’apertura della procedura di impeachment e l’ira di Erdogan, mentre già sfuma tra le polemiche l’effetto da campagna elettorale dell’eliminazione di al-Baghdadi. Anche questa, con ogni probabilità, frutto della triangolazione di cui sopra, che gran parte dell’America non riesce proprio a digerire.

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