venerdì 18 giugno 2021
L’esperienza che abbiamo vissuto deve condurci ad un ripensamento del nostro modo di perseguire la felicità: un benessere individuale e collettivo che sia generativo
Oltre la pandemia, ripartire da relazioni forti e autentiche

Ansa

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A più di un anno dall’inizio della pandemia siamo decisamente provati, ma anche relativamente consapevoli e attrezzati di fronte a molte delle sfide dell’emergenza sanitaria e lavorativa, dalla questione del contagio, alla campagna vaccinale, al lavoro a distanza e all’isolamento domestico. Una dolorosa convivenza, ma pur sempre una convivenza. Ma non possiamo dirci altrettanto consapevoli ed attrezzati rispetto alle dinamiche sociali innescate dalla pandemia ed alle conseguenze che la società sta subendo, sia in termini di appesantimento delle fragilità e delle disuguaglianze in molte frange sociali, che in termini di quella incertezza e di quell’ansia rispetto al futuro che attraversano trasversalmente tutto il corpo sociale. E poco ci aiutano da questo punto di vista i contenuti dei messaggi e della narrazione della crisi veicolati dai mass-media: una Infodemia infarcita di tratti di ridondanza e confusione informativa, di drammatizzazione ed allarmismo, e in alcuni casi di una retorica di falsa rassicurazione.

Ci rendiamo conto del fatto che l’emergenza eccezionale della pandemia ci ha sottoposto ad un esperimento sociale anomalo e totalmente inedito, che ci ha fatto vivere vissuti del tutto nuovi ed inattesi. Ma non altrettanto viva è la consapevolezza del fatto che occorre riflettere attentamente su questi vissuti e cogliere l’occasione che ci si presenta di sviluppare dentro di noi e nel mondo attorno a noi un nuovo spirito critico ed una vera capacità di resilienza trasformativa nei confronti del modello di vita cui eravamo abituati. A partire dai valori economici dello sviluppo, dagli assetti del welfare e delle politiche sociali, a quelli della tutela lavorativa, fino alla struttura dei processi decisionali, al rapporto tra Stato centrale e periferie territoriali ed alle modalità della partecipazione civica e della sussidiarietà.

Da un punto di vista più specificamente sociale, i temi all’ordine del giorno per imboccare una strada veramente proficua di resilienza post-crisi, possono essere ricondotti ad un unico filone generale, che è quello del valore della relazione e delle relazioni. La pandemia ci sta insegnando che non vi potrà essere un futuro di benessere per tutti se non nella considerazione della complessità relazionale della vita. E quando parliamo di complessità relazionale ci riferiamo alle relazioni tra parti del pianeta, tra specie umana ed altre specie, tra capitale umano, capitale naturale e capitale sociale; ma anche e soprattutto tra generazioni diverse e tra individui di una comunità, di una famiglia, di una unità abitativa, di un territorio.

In altre parole il dramma della pandemia deve aiutarci a dare vita ad un ripensamento del nostro modo di perseguire la felicità. Abituati a vivere vite disordinate e frettolose e distratti da mille stimoli spesso superficiali (consumi, informazioni, divertimenti), è come se ci fossimo dimenticati che solo relazioni positive, costruttive, rivolte al benessere di tutti possono permettere uno sviluppo ed un progresso individuale e collettivo vitale e generativo.

Per quanto riguarda il rapporto tra umanità e pianeta, occorre sviluppare la consapevolezza del fatto che il benessere di tutti dipende dagli equilibri del “sistema psico-somato-ambientale” nel quale siamo immersi, quel sistema che da tempo viene indicato come l’anima delle strategie della “Salute unica” (One health), il che significa indirizzare la ricerca, i consumi, la produzione, il lavoro, la formazione scolastica e quella specialistica, verso un ribaltamento delle logiche centrate su obiettivi separati settore per settore, e dunque verso la cura di tutto l’ambiente di vita naturale e sociale, verso la progettazione di città vitali in termini di relazioni umane e comunitarie, verso la promozione di ambienti di lavoro rispettosi della dignità e centrati sulla cooperazione e su obiettivi di valore sociale condiviso.

Per quanto riguarda la salute ed il benessere psico-fisico delle persone, stiamo cominciando a capire che bisogna porre la massima attenzione al disagio psichico ed alle forme vecchie e nuove di devianza, fragilità e malessere psicologico, e che non possono esistere né buona sanità né buone politiche sociali senza la valorizzazione della dimensione relazionale: nella medicina del territorio e della cura a domicilio, nella creazione di spazi di socialità ed in una offerta culturale di valore. Per quanto riguarda le generazioni, il peso delle chiusure scolastiche e delle restrizioni nei contatti e negli incontri fisici ci ha aperto gli occhi rispetto al fatto che l’umanità vive e si sviluppa grazie alle relazioni umane profonde, che coinvolgono la dimensione dei valori, delle motivazioni e delle passioni. Non basta assistere gli anziani per le funzioni vitali e di prima necessità. C’è bisogno di affetto e di scambio. E non basta, per quanto riguarda i giovani, dare loro la possibilità di accedere alle nozioni ed alle tecnicalità dell’istruzione. I giovani hanno bisogno di una scuola e di una famiglia che dialoghino con loro sul piano delle idee e dei sentimenti, che colgano i rischi di una involuzione auto ed etero distruttiva (le famose “passioni tristi”), che li aiutino a guardare al futuro con coraggio, fiducia ed ottimismo, come solo può avvenire se le relazioni tra soggetti sono forti, reciproche e generose.

Per quanto riguarda le famiglie e le comunità di vita, stiamo capendo quanto incida sui vissuti delle persone la sospensione del tempo, della mobilità e dei contatti umani e sociali esterni alla propria abitazione, quanto pesi lo stupore rispetto al silenzio delle strade e delle città vuote, quanto drammatico sia in alcuni casi il peso del contatto obbligato, ravvicinato e continuo con familiari o conviventi in spazi ristretti, e non da ultimo quali e quante siano le paure da cui siamo stati investiti: della malattia, della perdita del lavoro, dell’impoverimento, ma anche dello stare soli con se stessi, con la propria interiorità, spesso dimenticata, e che ci riserva contenuti a volte problematici, sia di tipo emozionale (come l’ansia e la preoccupazione) che di tipo razionale (rispetto alle scelte da compiere rispetto alla sussistenza economica, al lavoro, ai diversi da assolvere).

Certo la pandemia non ha inventato tutti questi problemi, e la solitudine dell’uomo moderno, immerso in una realtà densa e massificata nella quale ci si ritrova spesso “soli nella moltitudine”, è da tempo sotto la lente di ingrandimento di chi si occupa di disagio, di fragilità e di malessere psichico. Ma è fuori di dubbio che quello che hanno subito gli anziani in termini di solitudine esistenziale, sia se ricoverati nelle residenze assistenziali sia se soli nelle loro case; ed i giovani nel regime di isolamento e di allontanamento dalla scuola e dagli altri ambienti di socializzazione; in altre parole l’esperimento sociale cui la pandemia ci ha sottoposto, deve aiutarci ad imboccare la via di una rinascita a nuova vita e su basi nuove e di un impegno per un benessere individuale e collettivo generativo, che si basi su relazioni solide, affettuose e ravvicinate; su comunità di vita coese e solidali; su ambienti di socializzazione vivi e relazionali, su “città dei 15 minuti”, centrate cioè sui rapporti ravvicinati, contro i “non luoghi urbani” dell’anonimato della modernità; su tecnologie a servizio dell’uomo.

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