lunedì 26 aprile 2010
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Saranno pure digitali, ma i testimoni che a migliaia ieri mattina hanno colmato l’Aula Paolo VI fino all’ultimo posto in piedi sono sembrati anzitutto cristianissimi testimoni di gioia. Un colpo d’occhio, qualche parola scambiata tra la gente: e tra lombardi e siciliani, calabresi e veneti, gente che ha attraversato l’Italia dalla notte precedente per esserci, è parso subito evidente che hanno tutti fortemente voluto dire al Papa che gli vogliono un bene dell’anima.Quella che ha accolto Benedetto XVI al suo apparire nella grande sala delle udienze è stata una carezza a lungo preparata, un’indiscutibile ondata di affetto. Il Papa ne è stato come avvolto: la Chiesa italiana – e la sua rappresentanza concentrata ieri in Vaticano la esprimeva in modo efficace – ha saputo dire la parola che portiamo tutti nel cuore accompagnando Benedetto nel suo sofferto cammino di queste settimane, un cammino faticoso che ad alcuni è parso vedergli trasparire sul viso. E il Papa ha colto questo flusso di sentimenti profondi, parlando subito della «fedele adesione a Pietro di tutti i cattolici di questa amata nazione». Di comunicazione si è riflettuto in questi giorni di convegno ecclesiale sui «Testimoni digitali»: e la comunicazione tra il pastore e il suo popolo raramente è parsa più intensa di ieri.Anche per questo è suonato familiare, possibile, entusiasmante il compito assegnato dal Papa a quanti tra gli ottomila accorsi ieri si adoperano per dar voce al Vangelo dentro tutti i media in funzione. La missione, ancor più di ieri, è di saper «riconoscere i volti» di donne e uomini resi senza nome dal flusso immenso della comunicazione digitalizzata, e quindi «superare quelle dinamiche collettive che possono farci smarrire la percezione della profondità delle persone e appiattirci sulla loro superficie». Ecco il punto: «Tornare ai volti», proprio mentre le relazioni si moltiplicano facendosi impalpabili e illudendo che la connessione permanente sia garanzia di non essere mai soli.Ma quanto può essere davvero «uomo» – riconosciuto e rispettato come tale – chi galleggia su una nuvola di parole leggere, di informazioni senza mèta, di messaggi lanciati nel vuoto? Se è questo il modo in cui si estenua la comunicazione nell’era della tecnologia digitale, che la fa esplodere in un’infinità di coriandoli, le persone – avverte Benedetto – sono destinate a restare fantocci inerti, «corpi senz’anima, oggetti di scambio e di consumo». Cose, non persone. E ci stupisce ancora che, quando davvero conta la visione dell’uomo che uno si è lasciato costruire dentro, non si trovino le categorie per difendere la vita, la famiglia, la donna, i più piccoli? Per questo oggi non servono «tecnocrati» del comunicare ma «testimoni» credibili, convinti che questo «inquinamento dello spirito» vada bonificato a partire da un’idea chiara del mondo, un’antropologia coltivata, argomentata, convinta. Come si fa? Basta guardare chi tiene saldamente il timone: è il Papa, che una volta ancora ci ha invitati a impegnarci «senza timori» a «prendere il largo nel mare digitale, affrontando la navigazione aperta con la stessa passione che da duemila anni governa la barca della Chiesa». Basta seguirlo, imitarne il coraggio e la limpidezza, e il più è fatto. È lui che mostra quale stile serva ad abitare «questo universo con un cuore credente». È lui che spiega come «non stancarsi di nutrire nel proprio cuore quella sana passione per l’uomo che diventa tensione ad avvicinarsi sempre di più ai suoi linguaggi». È lui, ancora, che chiede di saper vibrare di «profonda e gioiosa passione per Dio, alimentata nel continuo dialogo col Signore». Un testimone massimamente credibile. Ovvio che i «testimoni digitali» ne vogliano sostenere, oggi ancor più di prima, ogni risoluto passo.
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