giovedì 20 dicembre 2012
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​È come se avessimo perso il Friuli Venezia Giulia. Non per un’invasione dall’Est (di quelle tanto temute ai tempi della Guerra fredda), bensì per i numeri che emergono dal 15° Censimento generale della popolazione. Un conteggio che consegna all’opinione pubblica l’immagine di un Paese che, alla data del 9 ottobre 2011, ospitava "solo" 59.433.744 residenti. Laddove registri anagrafici alla mano ce ne aspettavamo circa un milione e duecentomila in più: quanto gli abitanti di tutto il Friuli, appunto. La cosa di per sé non è né sorprendente – l’ammanco era emerso anche in occasione dei precedenti censimenti – né drammatica. È la presa d’atto dell’accresciuta mobilità che caratterizza un Paese divenuto ormai stabilmente «di immigrazione». Una realtà in cui mentre l’iscriversi in anagrafe quando ci si trasferisce dall’estero rappresenta un obbligo "conveniente" la cancellazione, quando ci si sposta in altri Paesi, è spesso solo una fastidiosa incombenza burocratica. Ecco allora l’accumularsi nei registri comunali di un popolo di "fantasmi", che la verifica sul campo tradizionalmente svolta dal censimento provvede a identificare e a esorcizzare, restituendo così veridicità al dato statistico. E il dato statistico "revisionato", se da un lato ci dice che la soglia dei 60 milioni di abitanti non è stata ancora raggiunta, dall’altro documenta pur sempre una crescita che nel decennio 2001-2011 è stata di poco superiore a 2,4 milioni di unità.A prima vista, si delinea l’immagine di una popolazione che ha dato prova di vitalità demografica. Ma se andiamo a fondo nel vedere cosa sta realmente dietro il consistente aumento dei residenti in Italia, troviamo un bilancio naturale che vede più morti che nascite 165mila in più nel corso del decennio e prendiamo consapevolezza che la vitalità di cui sopra altro non è che una certa capacità attrattiva nei riguardi dei flussi migratori. È infatti dall’estero che "importiamo" crescita ed è sotto questo profilo ben più che rispetto al troppo enfatizzato contributo economico che si gioca il vero ruolo della popolazione straniera (e delle famiglie che ne sono in larga parte espressione) nel favorire la costruzione di un futuro che ci accomuna.D’altra parte la fotografia del Censimento, nel segnalare 4 milioni di residenti stranieri, mostra come tra di essi poco più di un milione non abbia ancora vent’anni e come, in generale, l’età media degli stranieri sia di ben tredici anni inferiore a quella dei residenti italiani. È evidente che si tratta di un’iniezione di gioventù di cui una società che sempre più "invecchia" non può che sentirsi beneficiata. Nel confronto col censimento del 2001, quello attuale ci segnala 400mila ultra85enni in più e ci dice (ne siamo contenti) che gli ultracentenari sono aumentati del 139% giungendo alla ragguardevole cifra di 15mila unità. Ci vuole poco a capire che i problemi di equilibrio del welfare (ma anche in altri campi) che il cambiamento demografico in atto porta con sé non potranno avere magiche soluzioni.Dobbiamo rimboccarci le maniche e renderci conto, anche alla luce del messaggio insito nei dati del censimento, che la ricetta per governare il cambiamento passa attraverso la messa in atto, o il recupero, di comportamenti amichevoli verso la famiglia. Ossia verso quell’istituzione che oggi più che mai, tra le mille difficoltà e senza alcuna distinzione di passaporto, si ostina eroicamente a dare un futuro ai quasi 60milioni di "italiani" che le statistiche ci dicono popolare questo nostro Paese. C’è da riempire un vuoto, d’attenzione e di futuro.
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