Ancora parziale cambio al timone
giovedì 19 aprile 2018

Non facciamoci troppe illusioni. Anche se l’Asamblea del Poder Popular finirà quest’oggi con il designare il cinquantasettenne Miguel Díaz-Canel quale nuovo presidente e successore di Raúl Castro, Cuba resterà ancora per lungo tempo quel palcoscenico cristallizzato nella propria storia e nella propria leggenda dove da oltre dieci anni si recita una transizione che transizione non è, ma soltanto una scaltra e talvolta grottesca cosmesi di un potere incatenato all’epopea dei barbudos e della Sierra Maestra e impermeabile tanto alla democrazia quanto alla libertà del mercato, ma soprattutto a libertà ben più essenziali di quest’ultima. Un potere assolutamente non disposto a cedere la redini del Paese.

Certo, Díaz-Canel è relativamente giovane (un ragazzo, al cospetto degli ultraottantenni che hanno governato fino a oggi), è professore universitario e – si dice – favorevole a una stampa meno prona alla linea del Partito comunista, ama il rock e la freschezza della gioventù e punta a concedere una moderata libertà di navigazione su internet: a parole, un sincero riformista, alle spalle del quale tuttavia vigilerà compatta la vecchia guardia della Revolución.

Non per nulla Raúl rimarrà segretario del Partito fino al 2021, quando compirà novant’anni, e a Cuba il partito, come recita il quinto articolo della Costituzione, è tutto: «La forza dirigente superiore della società e dello Stato, che organizza e orienta gli sforzi comuni verso gli alti fini della costruzione del socialismo ed è avanguardia verso la società comunista».

Nessun’alba nuova si annuncia, anche perché è la prima volta che il presidente non sarà anche segretario generale del partito. E pure i servizi di sicurezza – l’occhiuta polizia che da sempre si occupa della repressione dei dissidenti – rimarranno in mano al clan dei Castro. A Díaz-Canel resterà l’onere di imboccare una sorta di "terza via" dopo il fallimento delle prime due, lo statalismo socialista caro a Fidel e il capitalismo comunista di ispirazione vietnamita accarezzato da Raúl ma subito ripiegatosi su se stesso per l’inefficienza, l’arretratezza e anche la corruzione di molte aree dell’isola.

Sulla sua scrivania saranno soprattutto l’economia, la riforma monetaria, l’impulso all’iniziativa privata, l’indispensabile attrazione dei capitali stranieri a dettare una nuova politica di governo. Sempre che la vecchia guardia glielo consenta: non sarebbe la prima fra le "giovani promesse" a scomparire rapidamente nell’oblio dopo l’iniziale euforia dell’annuncio.

Né giova al neopresidente l’ispida diffidenza dell’America di Donald Trump, che di quel delicato e difficile dialogo che – grazie soprattutto alla silenziosa mediazione della Chiesa cattolica cubana e della Santa Sede – portò Barack Obama al ripristino delle relazioni diplomatiche fra Washington e L’Avana e la promessa di una graduale revoca del cinquantennale embargo, tende ora a fare carta straccia.

Così pure il corteo degli etno-caudillos, che prendevano a modello la Cuba del Líder Maximo e la onoravano (nel caso delVenezuela) anche con generose donazioni di petrolio si è andato assottigliando, lasciando al solo Nicolás Maduro, erede dell’uomo forte di Caracas Hugo Chávez, il compito di portare la fiaccola di un comunismo stremato e fuori dalla storia.

Metafora esemplare di un estenuato tramonto che forse nemmeno il «patriarca» di Gabriel García Márquez avrebbe potuto interpretare con questa perseveranza, il lungo addio dei Castro continua all’insegna di una rugginosa difesa di un potere lontano che non sa guardare non si dice al futuro, ma neppure al presente.

A Raúl, che formalmente fa un passo indietro, una cosa in ogni caso va riconosciuta: l’aver interpretato al meglio il proprio ruolo di architetto della sopravvivenza del castrismo, racchiudendo Cuba in un guscio atemporale, scrigno di un’endemica povertà. Un guscio del quale la nomina di Díaz-Canel rischia di non essere in grado di scalfire nemmeno lo smalto. Vorremmo davvero essere smentiti. Vedremo.

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