giovedì 19 aprile 2018
L'Assemblea ha eletto il candidato unico. Ha un mandato di 5 anni rinnovabile. Raúl manterrà però molti poteri fino al 2021
Fidel Castro e Raúl Diaz-Canel nel 2013 (Ansa)

Fidel Castro e Raúl Diaz-Canel nel 2013 (Ansa)

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Miguel Diaz-Canel è stato eletto alla presidenza di Cuba, come successore di Raul Castro. Lo hanno annunciato i media cubani. Il 57enne, unico candidato, come previsto è stato confermato dall'Assemblea nazionale con un mandato di cinque anni rinnovabile. Ha ottenuto 603 voti su 604, ovvero il 99,83%, ha riferito il portale internet ufficiale Cubadebate.

Rivoluzione, atto secondo. Oggi cala il sipario sul monologo, lungo cinquantanove anni, dei fratelli Castro. In concomitanza, si apre la “fase due”. Una rappresentazione a più voci. Con un nuovo protagonista: Miguel Diaz-Canel. Le cui battute non sono ancora state (tutte) scritte. Certo, il regista Raúl Castro ha imposto un canovaccio abbastanza preciso. Redatto nel corso dell’ultimo complesso decennio. Fin dal 24 febbraio 2008 quando – dopo due anni di interim – ha sostituito il fratello Fidel alla presidenza, il pragmatico “Castro minore”, già allora 76enne, ha pensato alla successione. E l’ha costruita. Nel 2011, su sua proposta, il VI congresso del Partito comunista cubano (Pcc), ha imposto il limite di due mandati consecutivi di cinque anni per le massime cariche dello Stato. Fin dal principio, il presidente ha chiarito che era incluso nella misura. Due anni dopo, Raúl ha nominato come proprio vice un tecnico giovane – rispetto all’età media dei dirigenti – e rampante, Diaz Canel appunto, al posto dell’ultraottantenne – e ultra-ortodosso – José Ramón Machado Ventura. Il “delfino” era stato scelto. Con ampio anticipo per saggiarne tempra e qualità – e “fedeltà alla linea” – in attesa del fatidico 2018. Nel frattempo, Raúl – a Cuba non è necessario aggiungere il cognome per sapere di chi si tratti – si è riservato un ampio margine di manovra per “controllare” la transizione. All’ultimo congresso del Pcc, nell’aprile 2016, s’è fatto rinominare segretario, responsabilità che deterrà fino al 2021. Insieme alla guida delle Forze armate. Le due istituzioni chiave – secondo il dettato della Carta fondamentale – restano in mano sua. Al contempo, però, il potere, finora concentrato in una sola persona, ha cominciato a diluirsi.

Ieri si è aperta, con 24 ore di anticipo per questioni organizzative, la IX legislatura. I 605 neodeputati dell’Assemblea nazionale – il Parlamento –, designati l’11 marzo, si sono insediati al Palazzo dei Congressi dell’Avana. A loro, il compito di “eleggere” 31 componenti del Consiglio di Stato, l’organo decisionale del sistema cubano. Al cui vertice si pone il presidente, che riunisce in sé le figure di capo di governo e dello Stato. A partire dal 1976 – quando entrò in vigore l’attuale Costituzione – l’incarico è stato ricoperto da Fidel Castro (nel precedente sistema era comunque al vertice in quanto premier), poi da Raúl. Ora che quest’ultimo ha esaurito – per sua stessa volontà – i due mandati possibili, l’Assemblea deve trovare un successore. In realtà, i parlamentari si limitano a ratificare una lista bloccata, elaborata da un’apposita commissione. Ieri, dopo le consultazioni di rito, non c’è stata sorpresa sul nome del candidato-presidente: Diaz-Canel, ovviamente. Meno scontate le altre cinque figure proposte per la carica di vicepresidente e dei membri consiglio direttivo (i cosiddetti secondi vicepresidenti): nessuno appartiene alla famiglia Castro. Né Alejandro – uomo chiave delle Forze armate come il padre, Raúl – né Mariela, deputata e tecnicamente eleggibile. L’aspirante numero due – Salvador Valdés Mesa, 72 anni, leader sindacale di lungo corso – è garanzia di continuità. Come pure gli irriducibili Ramiro Valdés e Gladys María Bejerano Portela. Altri tre, però, appartengono alla generazione post-rivoluzionaria: Roberto Tomás Morales Ojeda, 50 anni, Inés María Chapman, 52 anni, e Beatriz Jhonson, 48 anni. La “nueva Cuba” che nasce oggi – quando si conosceranno i risultati del voto segreto emesso ieri dai deputati – si muove in bilico tra necessità di trasformazione – o perlomeno adattamento al presente – e stabilità. In omaggio a quest’ultima è stata scelta come data il 19 aprile: giorno in cui, nel 1961, i ribelli, al potere da due anni, respinsero l’invasione degli esuli anticastristi, aiutati dalla Cia, alla Baia dei Porci. Uno dei momenti fondativi del mito della Revolución. Per lo stesso criterio, il governo ha cercato di non enfatizzare troppo il “cambio della guardia”. I media statali, gli unici ammessi a seguire la seduta, hanno impiegato l’hashtag “somos continuidad” (siamo continuità) per trasmetterla in tempo reale sulle reti sociali.

Eppur qualcosa si muove a Cuba. Deve farlo, come sa perfettamente Raúl Castro, se non vuole implodere. L’effetto domino della crisi venezuelana rischia di avere un forte impatto sulla traballante economia dell’isola. Lo stesso presidente ha ammesso che le sue aperture al mercato per alleviare la penuria, sono ancora a metà strada. Il settore privato – circa 600mila microimprenditori e 250mila contadini autonomi – è troppo fragile per assorbire manodopera dall’inefficiente settore statale. Oltretutto, da agosto, il governo ha sospeso la concessione di nuove licenze per «impedire eccessi». Sono ancora le rimesse – circa 2 miliardi l’anno – ad alleviare le condizioni della popolazione. Allo stesso tempo, però, proprio le riforme rauliste hanno modificato il Dna sociale in senso maggiormente plurale. Le attese, soprattutto in termini di benessere, sono tante. Perché la “transizione pilotata – o telecomandata – funzioni, il successore dovrà soddisfarle, almeno in minima parte.

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