mercoledì 16 novembre 2022
I nodi irrisolti della battaglia contro il «climate change» e la sfida della Cop27 in corso in Egitto
Si stima che il 40% delle terre arate producano per l’allevamento. La lotta ai cambiamenti climatici passa anche da un cambio degli stili alimentari e da forme di produzione agricole di tipo biologico, basate sulle piccole unità orientate ai mercati locali. Nella foto un pastore keniano e il suo gregge di pecore morte a causa del caldo e della siccità

Si stima che il 40% delle terre arate producano per l’allevamento. La lotta ai cambiamenti climatici passa anche da un cambio degli stili alimentari e da forme di produzione agricole di tipo biologico, basate sulle piccole unità orientate ai mercati locali. Nella foto un pastore keniano e il suo gregge di pecore morte a causa del caldo e della siccità

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Cop 27, la ventisettesima conferenza delle parti sul clima in pieno svolgimento in terra d’Egitto, si pone l’obiettivo di «accelerare l’azione globale a favore del clima tramite iniziative di riduzione delle emissioni, il rafforzamento degli interventi di adattamento, maggiori finanziamenti ». Ma l’Emissions Gap Report 2022, lo studio realizzato dall’Onu sugli impegni assunti dalle nazioni per contenere l’innalzamento della temperatura terrestre, non autorizza ottimismo. Gli impegni assunti finora non sono sufficienti a raggiungere l’obiettivo di Parigi, ossia impedire alla temperatura terrestre di salire oltre 1,5 gradi centigradi. Per ottenere questo risultato gli Stati devono fare molto di più. Entro il 2030 devono abbattere le loro emissioni di un ulteriore 45% rispetto a ciò che hanno promesso, mentre attorno al 2050 le emissioni nette devono essere portate a zero. Se il tasso di riduzione di emissioni rimane quello attuale, la temperatura terrestre continuerà a crescere fino a registrare nel 2100 un aumento fra i 2,4 e i 2,8 gradi centigradi rispetto all’era preindustriale.

Il Rapporto indica cinque grandi aree di intervento per ridurre efficacemente la produzione di gas serra. La prima riguarda il settore elettrico che contribuisce al 37% del totale delle emissioni. La strada indicata è il superamento delle centrali a combustibili fossili, tramite varie strategie la prima delle quali è l’eliminazione dei contributi pubblici a favore delle fonti fossili. Benché tutti si dicano d’accordo con questa misura, nel 2020 le fonti fossili hanno assorbito 56 miliardi di dollari di contributi pubblici, 11 dei quali per produrre energia elettrica da carbone, gasolio e gas. Il Rapporto chiede con forza che questi soldi siano dirottati verso le rinnovabili, tra l’altro diventate le forme meno care di produzione di energia elettrica. Dopo la “transizione elettrica”, il Rapporto si concentra sull’industria manifatturiera come seconda area di intervento. Premesso che l’industria contribuisce al 26% delle emissioni, si indica ancora una volta nell’«economia circolare» la principale strategia di cambiamento. Ma nel contempo si richiama la necessità di rivedere in profondità il modo di produrre acciaio e cemento, le due produzioni più energivore. La terza area di intervento riguarda i trasporti rispetto ai quali serve una riduzione della mobilità, specie quella aerea, con contemporaneo aumento dei trasporti condivisi e maggiore uso di mezzi elettrici. La quarta area riguarda gli edifici che vanno orientati verso forme energetiche autonome e ad alta efficienza. Infine la quinta area riguarda il settore dell’allevamento e dell’agricoltura che contribuisce al 18% del totale delle emissioni.


Energia, industria, trasporti, edilizia e alimentazione sono le aree di intervento
per ridurre le emissioni di CO2. Ma ricorrere ai prestiti per aiutare i Paesi del Sud del mondo equivale a scrivere una condanna

Ma se allarghiamo lo sguardo anche ai fertilizzanti, alla deforestazione, alla trasformazione industriale, alla refrigerazione, scopriamo che il sistema cibo contribuisce a circa un terzo del totale delle emissioni. Responsabilità della logica estrattiva che ha trasformato l’agricoltura in un gigantesco tritacarne dentro il quale la terra è un semplice substrato da inondare di chimica per ottenere la germinazione e la crescita forzata delle piante, le sementi un’accozzaglia di molecole da modificare in base ai calcoli di migliore resa finanziaria, i lavoratori braccia da sfruttare, i consumatori anatre da ingozzare in base alla loro capacità di acquisto: a digiuno chi non ha soldi da spendere, all’ingrasso tutti gli altri.


Le nazioni meno sviluppate dedicano a ripagare gli obblighi finanziari in media il 25% della spesa pubblica. Ecco perché alla precedente conferenza di Glasgow
avevano chiesto un alleggerimento del fardello

Tant’è che abbiamo da una parte due miliardi di persone con vario tipo di deficit nutrizionale, 800 milioni addirittura affamati cronici, dall’altra due miliardi di obesi. E poiché anche la capacità di sovralimentarsi ha i suoi limiti, la macchina del cibo si è organizzata attorno allo spreco per ottenere l’assorbimento di tutto ciò che produce. La strategia si chiama consumo di carne, un vero campione di inefficienza dal momento che ci vuole una media di 7 calorie vegetali per ottenere una caloria animale. Ma ciò permette all’agroindustria di strappare sempre più terre alle foreste da destinare a pascolo e di accrescere l’aumento di investimenti nelle attività a basse emissioni e una produzione di granaglie e leguminose da dare in pasto agli animali. Si stima che il 40% delle terre arate producano per l’allevamento. Ecco perché la lotta ai cambiamenti climatici passa anche da un cambio degli stili alimentari e da forme di produzione agricole di tipo biologico, basate sulle piccole unità aziendali orientate ai mercati locali.

Il Rapporto Onu dedica un capitolo anche alla finanza per dirci che servono due iniziative di segno opposto: un rapido rapida diminuzione di investimenti in quelle ad alte emissioni. Che tradotto significa disinvestimento in imprese e progetti orientati all’estrazione e all’utilizzo di combustibili fossili e contemporaneo spostamento verso le tecnologie rinnovabili. Gli importi necessari per la transizione tecnologica utile ad arginare i cambiamenti climatici sono imponenti, ma non sono gli unici che servono. Vanno trovati anche i soldi per le opere infrastrutturali utili a difendersi dai fenomeni estremi che i cambiamenti climatici comportano. Per non parlare della necessità di riparare i danni che gli eventi estremi producono. In questo 2022, nello scorso mese di agosto, il Pakistan, che contribuisce a meno dell’1% delle emissioni di carbonio, è stato colpito da un’inondazione che ha causo una crisi umanitaria di proporzioni gigantesche. Migliaia e migliaia di chilometri quadrati sono andati sott’acqua procurando la morte di oltre 1.200 persone e lo spostamento forzato di milioni di individui. Il danno economico è stato valutato in 40 miliardi di dollari. I cambiamenti climatici impongono, insomma, interventi di mitigazione, adattamento e indennizzo che per l’insieme del Sud del mondo sono stati calcolati dalle Nazioni Unite attorno ai 6mila miliardi di dollari da trovarsi entro il 2030. Sapendo di essere i maggiori responsabili dei cambiamenti climatici, i Paesi ricchi si sono impegnati ad aiutare il Sud del mondo con 100 miliardi all’anno. Non molto, verrebbe da dire, eppure neanche questo traguardo riesce a essere raggiunto: nel 2020 la raccolta era ancora ferma a 83 miliardi. Per di più la maggior parte dei fondi offerti sono concessi sotto forma di prestiti. Il che fa dell’aiuto un problema più che un sollievo, perché il Sud del mondo di debiti ne ha già fin troppi.

Lo choc economico provocato dalla pandemia ha reso drammatica una situazione già disperata. Il debito pubblico è aumentato in 108 dei 116 Paesi del Sud del mondo, mentre 54 di essi sono ormai classificati come debitori critici. La maggior parte di questi si trova in Africa, ma ve ne sono anche di appartenenti all’Asia (Pakistan, Sri Lanka, Bangladesh) e all’America Latina (Argentina, Venezuela). 28 di essi appartengono anche alla categoria dei paesi climaticamente più vulnerabili. Il loro debito pubblico complessivo verso l’estero si aggira sui 780 miliardi di dollari, ma il problema più serio sono gli interessi che negli ultimi due anni sono cresciuti considerevolmente. Secondo una ricerca condotta dalla Norwegian Church Aid, mediamente i Paesi del Sud del mondo dedicano al pagamento del debito (interessi e rate in scadenza) il 25% della spesa pubblica, con punte che arrivano al 31% nell’Africa Subsahariana. Numeri ancora più drammatici se messi a confronto con le loro spese sociali e sanitarie. La spesa per il servizio del debito è pari al 75% della spesa socio-sanitaria in Asia, al 100% in America Latina e al 120% in Africa Subsahariana. Messa in un altro modo se il servizio del debito venisse eliminato, mediamente i paesi del Sud del mondo potrebbero raddoppiare le spese sociosanitarie. Addirittura potrebbero aumentare di trentadue volte la spesa per l’emergenza climatica.

Tutto questo spiega perché alla precedente conferenza di Glasgow i rappresentanti dei Paesi più poveri avevano rivendicato a gran voce la liberazione dal debito come fondamentale strategia di finanziamento. Ma la richiesta non ha trovato accoglienza. Deve andare meglio alla conferenza di quest’anno o il problema continuerà ad aggravarsi.


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