L'ora di resistere. Navalny non merita lacrime di coccodrillo
sabato 17 febbraio 2024

Era colui che non si può citare. Non soltanto il presidente Putin evitava accuratamente di pronunciare il suo nome, ma a tutto lo staff del Cremlino, per quanto si racconta, era proibito evocare la sua figura, assai scomoda per il sistema di potere egemone da decenni. E non bisogna, purtroppo, illudersi che la tragica morte di Alexeij Navalny riesca a rompere la cortina di silenzio che viene fatta calare su ogni forma di dissenso interno. Mentre in Occidente è unanime il cordoglio per la scomparsa del coraggioso oppositore, a Mosca poche parole nei telegiornali per segnalare brevemente e in tono neutro che il detenuto è spirato dopo l’ora d’aria. Navalny era il più temuto – anche se ormai ampiamente sotto controllo – degli sfidanti dello Zar Vladimir perché era un potenziale leader in sintonia con una parte del popolo russo (nel 2013, ottenne il 27% dei suffragi nella corsa a sindaco della capitale, malgrado il pesante boicottaggio cui fu sottoposto dalle autorità). Non un liberale in stile europeo o americano, piuttosto un esponente del nazionalismo post-sovietico che, all’inizio della sua militanza, fu espulso dal partito moderato Jabloko per le posizioni vicine alla destra revanscista. Ma era soprattutto un patriota che voleva vedere rifiorire il suo Paese schiacciato da un’élite brutale ed inefficiente e che per questo ha sacrificato se stesso e ha messo a rischio la sua famiglia. All’inizio era stata la gestione del governo a creare la frattura tra il putinismo – di cui aveva approvato alcune mosse imperialiste - e il giovane avvocato ed economista, figlio di un ufficiale dell’esercito e cresciuto nelle zone militari segrete dell’Urss. Espresse in alcune occasioni ostilità contro i migranti e le popolazioni caucasiche.

Su quel versante, niente di molto diverso dal Putin pensiero, tanto che nel 2021 Amnesty International sollevò dubbi sulla «definizione di Navalny come prigioniero di coscienza a causa di commenti da lui fatti in passato, che possono equivalere a discorsi d’odio». I prigionieri di coscienza sono coloro che vengono privati della propria libertà solo a motivo delle loro opinioni: il dissidente numero 1 era diventato, senza ombra di dubbio, vittima di persecuzione giudiziaria da quando aveva cominciato a denunciare sistematicamente la corruzione del regime, le ruberie, gli arricchimenti personali e gli sprechi di denaro e risorse pubbliche. Comprava azioni di grandi compagnie, quindi, partecipando alle assemblee e avendo accesso ai bilanci, smascherava il marcio dietro la facciata rispettabile. Tutto veniva documentato con dovizia di particolari – documenti e immagini – diffusi sui siti web del suo gruppo, ormai diventato forza sociale e politica con notevole seguito nel Paese e, quindi, minacciosa per le classi dirigenti. Di qui, l’esclusione dalle elezioni nel 2018 per vicende giudiziarie piuttosto fumose. In seguito, una serie di processi, condanne, l’avvelenamento in Siberia con un agente nervino e cure d’emergenza in Germania, il ritorno in patria sapendo che sarebbe stato subito arrestato, la denuncia-video del suntuoso “palazzo di Putin” e, infine, la sentenza più pesante che l’ha messo fuori gioco fisicamente, ma non annullato del tutto la sua influenza.

Tre giorni fa stava bene, dicono i suoi collaboratori. È stata una trombosi improvvisa, dicono le autorità carcerarie, anche se si fa notare che questa diagnosi può venire solo da un’autopsia. La verità sarà difficile da conoscere. Di certo Navalny è stato braccato, cento volte fermato quando manifestava, minacciato, sottoposto a condizioni durissime e umilianti – 27 volte in isolamento per 280 giorni totali – che avrebbero fiaccato qualsiasi organismo. È stato ucciso? Non lo sappiamo. La logica vorrebbe che alla vigilia del voto del 15 marzo, previsto plebiscitario per la riconferma di un presidente senza avversari, non ci sia interesse a scatenare un’ondata di indignazione internazionale. Ma forse dobbiamo uscire dalla nostra logica per entrare in quella che vige al Cremlino. Che bisogno c’era di escludere dalle liste il pacifista Boris Nadezhdin, pallido e innocuo sfidante di Putin? E, alla luce dei due anni di guerra, qual è la ragione dell’invasione dell’Ucraina che a Mosca non ha ancora portato alcun beneficio? E che necessità c’era di accanirsi su Navalny spostandolo mesi fa nel più remoto e famigerato penitenziario siberiano? Puntare il dito contro il Cremlino non basta e fa il gioco della sua propaganda, che già allunga l’ombra sulle elezioni europee di giugno. Bisogna avere invece il coraggio e la fantasia di sostenere attivamente coloro che in Russia provano a resistere e tenere alta la bandiera della libertà e della democrazia. Navalny ha scelto di farlo fino all’ultimo respiro. Non merita solo lacrime di coccodrillo.

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