mercoledì 2 dicembre 2009
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Alla fine il generale McChrystal è riu­scito a convincere Obama. Nono­stante i dubbi di molti democratici e l’o­stilità manifesta del vicepresidente Joe Biden (che preferiva il ricorso massiccio alla tecnologia militare rispetto alla fan­teria), Washington invierà più di 30mila soldati in aggiunta alle forze già dispie­gate in Afghanistan. Era quanto chiede­va il capo di Isaf per evitare il tracollo dello scenario di sicurezza. Una scelta non facile per il presidente, dopo anni di guerre, migliaia di morti e un’opinione pubblica sempre più ostile a questo tipo di missioni. Negli Usa, chi avversa la decisione sottolinea come l’impegno a Kabul ricordi sempre più le dinamiche del Vietnam. Chi l’appoggia preferisce usare il termine che tanta for­tuna ha portato in Iraq, ossia Surge, l’au­mento massiccio di truppe impiegate sul terreno per sconfiggere gli insorti e i terroristi che avevano precipitato quel Paese nella più totale anarchia. McChrystal per primo si innervosisce quando si tracciano paralleli con Bagh­dad, ricordando le peculiarità della par­tita afghana. Ma certamente a Kabul, co­me è stato per l’Iraq, il rafforzamento del contingente è solo il primo tassello per una soluzione che dipende necessaria­mente da altri fattori. Il primo è la ripre­sa di una forte iniziativa politica dell’e­secutivo locale e il miglioramento della sua capacità di governo, finora assai sca­dente. Il secondo tassello è l’'afghaniz­zazione' del conflitto, vale a dire il sem­pre maggior coinvolgimento delle forze di sicurezza e di polizia nazionali nella lotta contro i taleban. Al di là della retorica, la verità è che fi­nora la Nato ha risolto il problema di au­mentare le forze militari afghane di­mezzandone i tempi di addestramento, soluzione che non giova a migliorare le loro capacità operative. L’elemento nuo­vo è la decisione di affidarsi alle milizie tribali nella lotta agli insorti. L’Isaf pa­gherà capi tribali pashtun per assicurarsi la loro lealtà e per evitare che finiscano con il sostenere i taleban, i quali a loro volta pagano, e bene, molti dei loro mi­liziani. Una scelta probabilmente obbli­gata, ma che contribuirà a rafforzare il controllo tribale sulle province, ridando forza ai tanto detestati signori della guer­ra che hanno rappresentato – tuttora so­no – una delle piaghe peggiori del Pae­se. Infine, vi è il problema della stabiliz­zazione del Pakistan, ora comoda retro­via delle forze anti-governative. Ma la decisione di Obama va oltre il qua­dro di sicurezza locale e coinvolge la cre­dibilità stessa della Nato e della Ue qua­le soggetto politico. Washington chiede che gli europei aumentino di alcune mi­gliaia di uomini i loro contingenti, nel­l’ottica della solidarietà atlantica. Para­dossalmente, la fine dell’unilateralismo di Bush toglie un comodo alibi al Vec­chio Continente: questa decisione non è imposta dagli Usa, ma risulta dalle ne­cessità del campo, ed è condivisa con gli alleati. I quali devono ora dire se inten­dono o meno sostenere con soldati ag­giuntivi lo sforzo multilaterale della Na­to. In entrambi i casi, si tratta di scelte non facili: sfidare l’ostilità delle opinio­ni pubbliche e la crisi economica di­cendo di sì all’escalation, oppure mi­nare l’Alleanza Atlantica e la propria cre­dibilità come attori internazionali di­cendo di no. In fondo, si sussurra nei circoli militari, quella in Afghanistan è la prima vera guerra – anche se non è chiamata così – combattuta dalla Nato; non possiamo rischiare di perderla, per­ché rischieremmo di colpire la stessa solidarietà cinquantennale fra i Paesi membri. Dire di sì significherebbe andare incon­tro ad altri anni di rischi e di vittime, da­to che i militari voluti da McChrystal do­vranno affrontare a viso aperto le mili­zie degli insorti. Il pericolo maggiore sa­rebbe illudersi che nuove truppe non si­gnifichino anche nuovi lutti, almeno nel breve periodo. Dire di no, renderebbe forse vani tutti gli sforzi finora profusi in quello sfortunato Paese.
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