Nessuna città è un'isola. E la sovranità è più limitata
mercoledì 26 febbraio 2020

Prendere o lasciare: la globalizzazione non conosce vie di mezzo. Lo sapevamo già, almeno in teoria, ma è nei giorni dell’emergenza da Covid-19 che ce ne stiamo rendendo conto veramente. È come se vicino e lontano avessero cambiato di posto e tutto, all’improvviso, fosse qui e da nessuna parte, a portata di mano e irraggiungibile nello stesso tempo. Non troppo tempo fa le distanze erano chiare, le gerarchie rispettate. Quanto tempo fa, esattamente? Prendiamo il 1960, se non altro per amore della cifra tonda. Nell’anno delle Olimpiadi di Roma per qualche settimana si ha l’impressione che l’Italia sia di nuovo al centro del mondo, ma poi le delegazioni se ne tornano in patria, gli atleti salutano dalla scaletta dell’aereo con il loro carico di medaglie oppure di delusioni, e gli italiani si rimettono all’opera per dare consistenza al boom economico locale. Pochissimi i viaggiatori, all’epoca, e più per necessità che per diletto. Il 1960 è anche, per una curiosa combinazione, l’anno di Un mandarino per Teo, classica e addirittura proverbiale commedia musicale di Garinei & Giovannini incentrata su un dilemma morale sminuzzato a beneficio dello spettatore più ingenuo: ecco un pulsante, se lo premi in Cina muore un mandarino e tu diventi ricco, che cosa scegli di fare? D’accordo, quello che viene evocato è un Oriente da operetta o, se si preferisce, à la Jules Verne, nello stile delle Tribolazioni di un cinese in Cina. Quel che più conta, nello specifico, è la distanza percepita, che continua ad apparire insormontabile. Con Pechino e dintorni Teo non ha nulla a che fare, per questo può agire in modo tanto spensierato.

Sessant’anni dopo la mappa del mondo è rimasta immutata solo in apparenza. La mobilità di merci e persone è capillare, almeno negli scambi fra le zone più affluenti, e dove non arrivano i voli di linea suppliscono i collegamenti impalpabili delle connessioni digitali. A scatenare un uragano basta ancora il battito di ali di una farfalla dall’altro capo del pianeta, ma questa volta si può stare sicuri che l’istante fatale verrà filmato da qualcuno, riprodotto a sazietà sulle reti sociali, ridotto a meme da utilizzare nei contesti più disparati e incongrui. Non è così, del resto, che sta andando con il nuovo coronavirus? Che si tratti di pandemia ancora non è certo, che sia la prima infodemia dell’era dei social invece sì. E non è casuale, da questo punto di vista, che in Italia il focolaio di contagio si concentri nell’area del Paese maggiormente esposta agli effetti della globalizzazione. Parliamo del Nord e più precisamente della Lombardia.

Non tanto di Milano, e anche questo è un dato sintomatico: più della metropoli è il sistema della cosiddetta città metropolitana a essere interessato. Non in senso strettamente amministrativo, d’accordo, ma in quella interconnessione che, in termini manzoniani, si potrebbe definire tra città e contado. Con l’avvertenza che oggi, a fare da cintura al capoluogo, sono gli aeroporti, le sedi delle multinazionali, sono le piccole e medie imprese manifatturiere ad alta specializzazione che intrattengono rapporti internazionali di portata spesso imprevedibile. Un tessuto fittissimo e vitale, che proprio per questo risulta più poroso, più esposto alla contaminazione e al contagio. Come ha già rilevato padre Antonio Spadaro nel contributo per La Civiltà Cattolica anticipato da Avvenire, sono queste le parola chiave. Nelle società globali non c’è nulla che non accada per contagio: la comunicazione (per avere successo un messaggio deve prestarsi a diventare virale), i processi creativi (la moda, per esempio, contamina), il commercio delle informazioni e via elencando.

In questo contesto il contagio non è un incidente, ma è il percorso stesso. Fino a quando nel circuito non si immette un ospite inatteso, che si moltiplica con modalità parassitarie, secondo la logica che sta alla base del film sudcoreano che ha di recente trionfato agli Oscar. Da Un mandarino per Teo a Parasite di Bong Joon-ho il salto può sembrare vertiginoso, eppure è da qui a lì che ci siamo spostati in questo mezzo secolo abbondante, è a questo punto che siamo arrivati, uno snodo dopo l’altro. Abbiamo disegnato un mondo di cui nessuno – ammettiamolo – può affermare di conoscere davvero la complessità e adesso, travolti da un panico che a sua volta ci risulta inspiegabile, ci illudiamo di correre ai ripari adoperando i rimedi di un passato ormai inservibile. Ci affrettiamo ad alzare il ponte levatoio, incuranti del fatto che al posto del fossato ci sia un terrapieno e che le mura stesse siano state abbattute. Più forti della globalizzazione, però, sono i sistemi di costrizione, che hanno ben appreso la lezione dell’implacabilità immateriale. Ne sanno qualcosa i nostri connazionali respinti all’aeroporto di Mauritius e qualcos’altro possono confermare i settentrionali che, in quest’Italia rovesciata, si trovano a indossare i panni degli indesiderati. Prendere o lasciare, una volta di più: del mondo globale non si possono gustare i benefici pretendendo di scartare gli inconvenienti. Per adesso è il Nord, la Lombardia, Milano, ma nessuna città può più essere un’isola. Ed è per questo che, a guardarla da vicino, ogni sovranità risulta più limitata di quanto fossimo abituati a pensare.

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