Nelle tensioni tra Usa e Iran la pace passa dall’Europa
giovedì 30 gennaio 2020

Nelle ultime settimane il conflitto tra Iran e Stati Uniti d’America si è arricchito di un nuovo capitolo in seguito all’eliminazione mirata del generale Qassem Soleimani da parte degli Usa e il successivo attacco missilistico iraniano contro due basi militari in Iraq, a Ain Al Asad ed Erbil che ospitano militari americani. Anche in virtù della spettacolarizzazione di questo avvenimento, la tensione è salita alle stelle. Di conseguenza, uno dei dubbi emersi in seguito a tale escalation era se la crisi sarebbe sfociata in un conflitto armato su larga scala. Questa ipotesi con il passare dei giorni ha perso di forza sebbene essa non sembri tramontata del tutto.

In realtà, nessuno dei due protagonisti sembra volere una guerra, ma i rischi che essa possa divenire un’opzione concreta sono comunque elevati. Gli Stati Uniti, con l’amministrazione Trump, hanno scelto una strategia di rottura del dialogo che si basa essenzialmente sull’impoverimento dell’Iran attraverso l’inasprimento delle sanzioni. La situazione economica iraniana è, infatti, decisamente fragile da diversi anni e adesso si trova a dover fronteggiare un più profondo disagio popolare che alla fine del 2019 ha contribuito ad alimentare la rabbia di molti sfociando in un’ondata di proteste.

La situazione purtroppo sembra destinata a peggiorare: secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale, il tasso di inflazione che nel 2019 è arrivato quasi al 36% e che negli ultimi dieci anni è stato in media pari al 21% diminuirà lentamente, ma non andrà sotto il 25% fino al 2024. Inoltre, il Pil pro-capite iraniano nel 2020 sarà più basso di quasi il 15% rispetto al 2010 e si manterrà intorno a questo livello almeno fino al 2024. Si deve però tener conto che oltre all’impatto sostanziale delle sanzioni economiche imposte da Stati Uniti e Unione Europea, è la stessa politica regionale dell’Iran che continua ad avere conseguenze significative sulla stabilità economica del Paese. Giocare il ruolo di attore chiave a livello regionale su diversi fronti ( Yemen, Libano, Iraq e Siria) ha infatti dei costi elevati. Basti pensare che il governo impiega stabilmente il 16% delle proprie risorse in spese militari, ma con il declino economico in corso, una popolazione crescente e una disoccupazione giovanile che già si avvicina al 30%, questo impegno militare potrebbe diventare a breve insostenibile.

In realtà, la strategia ottimale per l’Iran sarebbe quella di investire in un processo di progressiva de-escalation disimpegnandosi dai fronti in cui è invischiato ma rinunciando anche, in questo modo, al ruolo di potenza regionale. La de-escalation potrebbe però avere per il regime costi molto elevati in termini politici e di reputazione e quindi potrebbe non essere considerata una strategia da perseguire quantomeno nel brevissimo periodo. La sensazione, insomma, è che l’Iran si ritrovi in un vicolo cieco. Se, da un lato, la spettacolarizzazione dell’uccisione del generale Soleimani sembra aver coagulato nuovo consenso intorno al regime contro il nemico esterno, dall’altro essa costringe gli ayatollah a proseguire in una dispendiosa strategia di conflitto permanente senza una reale opzione di uscita che garantisca in futuro la tenuta del sistema di fronte alle crescenti domande provenienti dall’interno. In breve, questo conflitto permanente rischia di impoverire così tanto l’economia da ingenerare un’implosione del regime con elevati costi umani e sociali. La distensione con i nemici di sempre potrebbe viceversa rappresentare una svolta. Verosimilmente anche in questo scenario a far da spartiacque saranno le elezioni americane nel prossimo novembre o comunque il destino della presidenza Trump (che in questi giorni ha proposto un piano di pace per il Medio Oriente, rigettato però dai palestinesi e considerato da molti analisti inefficace se non controproducente).

La prossima Amministrazione americana, infatti, dovrà decidere se mantenere la linea dura scommettendo ancora sulla futura implosione del regime oppure impegnarsi in un’attenta opera di distensione, lasciando la porta aperta a eventuali tentativi di dialogo provenienti sia dal regime sia da esponenti della società civile. È giusto notare che in questo caso, l’Unione Europea sembra aver fatto la scelta giusta ribadendo l’intenzione di considerare ancora il Trattato Jcpoa come base per qualsivoglia accordo di pacificazione futura. Il ruolo che i Paesi europei possono e devono giocare è quello di trovare in maniera condivisa una linea alternativa, ma complementare, a quella dell’alleato americano in modo da lasciare possibilità concrete alla costruzione della pace con l’Iran e in tutta la regione mediorientale.

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