Nella vita e nella tragedia di Saman i nodi del nostro presente e del nostro futuro
domenica 13 giugno 2021

Caro direttore,

la tragedia della giovane Saman non è solo un ordinario fatto di cronaca nera. È molto di più. Se – come oramai tutto lascia pensare – la ragazza è stata uccisa da membri della famiglia perché aveva rifiutato un "matrimonio combinato", ciò ha molto a che vedere con la tenuta sostanziale della nostra democrazia e dei suoi valori umani e civili. Saman – come tante altre ragazze figlie di famiglie immigrate – aveva aderito alla nostra democrazia e ai nostri valori. Probabilmente aveva cercato di coniugarli con la sua appartenenza di origine e con il rispetto della sua famiglia. Fino al punto nel quale aveva trovato il coraggio di denunciare ai Carabinieri soprusi e coercizioni. Era stata così accolta, per un periodo, in una Comunità. Poi, inspiegabilmente, è stata lasciata sola ad affrontare la famiglia. La scusa che, nel frattempo, era diventata maggiorenne ha il sapore tragico del ridicolo, pur nel Paese delle giustificazioni "burocratiche". La verità è che noi, in Italia, non abbiamo mai voluto prendere sul serio l’integrazione dei giovani figli di famiglie straniere. Ci preoccupiamo – giustamente – degli aspetti di sicurezza e di ordine pubblico, ma facciamo assai poco per promuovere i nostri valori di democrazia e di rispetto dei diritti civili presso una parte non marginale delle famiglie immigrate; valori che dovrebbero invece essere posti a necessario fondamento di qualsiasi politica di accoglienza. Perché sono la base comune di una proficua convivenza, nel rispetto delle diverse tradizioni culturali o religiose. Ce ne occupiamo, per qualche giorno, quando succede qualche tragedia. E poi basta. E così stanno crescendo da anni, dentro le nostre comunità, molte "zone franche", nelle quali la cultura dei diritti della persona (della donna in particolare) e i valori della democrazia tipici del nostro ordinamento sono di fatto "sospesi". Tutto questo riguarda le istituzioni. Ma c’è un ritardo collettivo e pubblico ancora più colpevole, che si nota anche nella diffusa opposizione – come lei, direttore, ha ricordato domenica 6 giugno, in riferimento alla tragica morte di Seid Visin – alla ragionevole proposta dello ius culturae, volta al riconoscimento della cittadinanza italiana ai minori di origine straniera nati e/o residenti in Italia e frequentanti la nostra scuola. È il ritardo di una comunità nazionale che in troppe sue parti ancora non ha capito una cosa fondamentale: queste ragazze e questi ragazzi sono un "patrimonio umano" di inestimabile valore, una risorsa preziosa che va tutelata, protetta e valorizzata anche guardando al necessario positivo rapporto con un mondo ormai globale. Quando un sistema di valori civili e democratici tollera al proprio interno "zone franche" inizia il suo declino. E non sarà colpa "degli immigrati", ma della nostra pavida indifferenza.

Lorenzo Dellai


Sì, è proprio vero, caro Dellai, nella vita e nella tragedia (non voglio ancora scrivere nella morte) di Saman, ragazza italiana, ci sono anche nodi che stiamo rendendo aggrovigliati e che riguardano il nostro presente e il nostro futuro. C’è la questione della nostra anima e della nostra civiltà: perché è senz’anima e proclama una civiltà declinante e già vuota d’umanità e di fiducia in se stessa una società che non custodisce e non accoglie i propri figli, e la nostra società i figli e le figlie sa tradirli in molti modi: dalla celebrazione dell’aborto come "diritto" sino allo "scarto" dei giovani e delle giovani che qui sono nati e si sono formati ai quali rendiamo difficile essere cittadini o, se cittadini sono per diritto di sangue, spingiamo a cercare il domani all’estero. E c’è la questione della democrazia, che lei, caro amico, vede e sottolinea bene, con sensibilità certo affinata dal suo intenso servizio nelle istituzioni della Repubblica. È vero stiamo consegnando a retoriche irose, aspre e spesso ciniche la questione decisiva della costruzione della civile convivenza tra "diversi" in una terra naturalmente "plurale", che pure è stato il grande canovaccio della millenaria vicenda dell’Italia e degli italiani e, con più esaltante intensità, lungo gli ultimi due secoli dell’edificazione dello Stato unitario e del suo benedetto evolversi, appunto, in Repubblica democratica. Le invasioni da nord e da sud, lo sappiamo, hanno fatto la nostra storia e – piaccia o non piaccia – ci hanno fatti differenti e accomunati come ora siamo, ma oggi, che le sentiamo evocare a vanvera solo per mediocre e autolesionista calcolo, dobbiamo pensare a tutt’altro, alle inclusioni da realizzare, perché non ce n’è solo una da fare, ma tante e tutte dentro l’essenziale "misura" dei diritti e dei doveri comuni che anche lei, caro Dellai, richiama con passione ed efficacia. Diritti e doveri, che vanno sempre insieme. E vanno insieme a ciò che nessuna legge potrà mai codificare del tutto e che si trasmette come la vita, cioè con l’incontro, col mettersi in gioco, in modo serio, anche competitivo, ma aperto e perciò solidale. Con una formula, che forse ha limiti, ma soprattutto profonda verità è il riconoscimento e il rispetto degli «altri» senza rinunciare a rispettare se stessi e a vivere la propria identità. È soprattutto qui la base di quella «cultura civile» che è stata – e che dobbiamo ancora far essere – il tratto caratteristico più bello delle nostre comunità, della nostra economia, di un modo di interpretare i territori che sono l’Italia. Un’Italia, ha ragione anche in questo, caro e gentile amico, nella quale esistono, ma non devono continuare a farlo, deteriori "zone franche", che riguardino gruppi familiari o religiosi, cosche, manipoli o camarille.

A mio parere l’impegno è inevitabile e urgente, ma sarà più duro – voglio dirlo chiaro – perché s’è affievolita e un po’ confusa anche la grande forza unitiva che è stata rappresentata dalla fede cristiana e dallo sguardo cristiano e cattolico sugli altri e sul mondo, che non conosce confini e quando li incontra non li subisce e non li fa subire. Una fede che poteva non riguardare tutti, o tutti alla stessa maniera, ma a tantissimi, praticamente a tutti, dava vocabolario comune e l’indispensabile scintilla per le lampade da accendere lungo il cammino. Non s’è persa, no, quella fede. Ma s’è svigorita e confusa, e proprio – anche se qualcuno sostiene l’esatto contrario – nelle parole e nei gesti di chi travisa il Vangelo e arriva addirittura a impastarlo con paglia e fango per farne il primo mattone di un muro da costruire in faccia al Mediterraneo o ai Balcani e, comunque, al mondo: "Ognun per sé e Dio per tutti" (ma un po’ più per "noi"). No, quella fede, che è la "funicella" (fides) che lega terra e Cielo e ci collega tra noi senza imprigionarci, è sfibrata, inutile nasconderselo, e magari qua e là male annodata, ma non s’è spezzata e non è andata persa. Proprio no. Si tratta di essere attraenti e forti, umili e decisi, si tratta di non cedere a timori e risentimenti, si tratta semplicemente di crederci. E laicamente di dare una mano, di dare la mano a chi "entra in città". Si tratta di voler bene a tutti i nostri figli, a tutte le nostre figlie. Penso a Saman, e penso: mai più nessuno da solo, nessuna da sola. E penso che la democrazia – in cui per tutti e tutte ci sono posto e rispetto, diritti e doveri – significa non sciupare neppure un altro minuto di quest’oggi per fare cose giuste e leggi giuste. A cominciare da una nuova legge sulla cittadinanza.

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