venerdì 15 settembre 2017
Caro direttore, che il Concilio Vaticano II sia un punto di non ritorno sul fronte del vissuto ecclesiale, dell’intelligenza teologica e della coscienza di ogni buon credente
Questo tempo nella vita della Chiesa
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Caro direttore,
che il Concilio Vaticano II sia un punto di non ritorno sul fronte del vissuto ecclesiale, dell’intelligenza teologica e della coscienza di ogni buon credente (vescovo, presbitero, religioso o comune fedele) è un dato di fatto assodato, su cui papa Francesco è ritornato più volte. Tuttavia, da questa franca ammissione nei confronti di un’eredità ricevuta e accolta con riconoscenza non risulta legittimato quel luogo comune che mira a rappresentare l’evento del Vaticano II come una sorta di fulminea 'palingenesi' della riforma della Chiesa, quasi essa abbia avuto inizio magicamente con l’11 ottobre 1962. In realtà, è un’evidenza palmare che l’ultimo Concilio ha conosciuto una lunga fase di gestazione.

Basti qui riferirsi al contributo pionieristico fornito nella prima metà del ’900 dai fautori dei movimenti biblico, liturgico, ecclesiologico, missionario, pastorale ed ecumenico. Oppure al ruolo che hanno giocato nella Chiesa italiana autorevoli ecclesiastici: oltre ai cardinali Giacomo Lercaro e Giovanni Battista Montini, basti pensare a vescovi quali Enrico Bartoletti, Franco Costa, Emilio Guano, nella cui scia hanno potuto poi iscriversi pastori conciliari quali Tonino Bello, Cataldo Naro, Carlo Maria Martini. Lo stesso si deve dire di figure di preti quali don Milani, don Zeno, padre Balducci, padre Calati, don Mazzolari o di laici quali Olivelli, Carretto, La Pira, De Gasperi, Moro, Dossetti, Lazzati, Chiara Lubich, Bachelet (tutte le liste ovviamente peccano per difetto). Si tratta di personalità che hanno vissuto e ravvivato la stagione di vita e la coscienza ecclesiale prima del Concilio. Non diversamente ciò vale per la teologia cattolica europea del ’900 che ha visto affermarsi nella prima metà del secolo colossi del calibro di Romano Guardini, Karl Rahner, Hans Urs Von Balthasar, Marie-Dominique Chenu, Henry de Lubac, Yves Congar, Edward Schillebeeckx e l’elenco potrebbe continuare.

E il discorso potrebbe forse essere allargato ai domini della riflessione filosofica e della letteratura, se è vero che l’attuale generazione complessivamente non ha raggiunto neppure gli epigoni della precedente. Tuttavia, nonostante la straordinaria lezione conciliare non abbia ancora ultimato di portare i suoi saporosi frutti, pare poter sommessamente affermare che la generazione postconciliare dei vescovi, dei teologi e dei maggiori rappresentanti del mondo cattolico non sia in grado di competere con quelle straordinarie personalità sopra richiamate. Sia chiaro il discorso richiederebbe di essere debitamente istruito per interrogarsi sui criteri di reclutamento dell’episcopato, sui nuovi impulsi in atto sul fronte teologico, nonché su un protagonismo dei laici forse più sbandierato che effettivamente praticato.

È pur vero poi che ogni stagione storica ha il suo spirito epocale, le sue punte di eccellenza, i suoi dinamismi interni al tessuto ecclesiale e i suoi risvolti esterni in termini di dialogo con la cultura circostante. Certamente dopo l’ultima assise hanno avuto un’influenza assolutamente preponderante e pervasiva fenomeni complessi, quali la secolarizzazione, il retaggio del ’68, l’avvento della società di massa, la caduta delle ideologie (i grandi racconti), l’invasività dei media e la digitalizzazione, i processi di globalizzazione, le migrazioni e le nuove frontiere del post-umano. E, trasposto in chiave biblica, alla stagione esodica e dei grandi profeti segue la fase della sapienza come virtù del buon governo, che ricerca il senso della misura, che invita a saper cogliere le sfumature, che in ogni occasione sollecita a scegliere fra vero e falso, e – per ultimo – invita a cogliere dentro la proposta contenuta nella Parola di Dio la direzione del bene possibile. Senza cadere in diagnosi disfattistiche e apocalittiche – che comunque non possono essere compensate da fughe nell’intimismo o nella coltivazione di narcisismi di qualsiasi sorta –, è consolante lasciarsi guidare dalla saggezza maturata nel passato, quando dopo un’età aurea di geni e di creatività somma è succeduta un’epoca da iscriversi in un profilo meno esaltante e più ordinario.

Può tornare utile riferirsi al celebre asserto che s’incontra nel Metalogicon di Giovanni di Salisbury: «Diceva Bernardo di Chartres che noi siamo come nani sulle spalle di giganti»; possiamo, cioè, vedere più lontano non per l’acume della nostra vista o l’altezza del nostro corpo, ma perché siamo portati in alto dalla statura dei giganti. La massima restituisce conforto e speranza proprio in quanto gli attori di oggi, seppur nani rispetto ai grandi maestri fondatori del passato, possono persino sopravanzarli, guardare 'oltre' e più in profondità l’orizzonte, onorare così e rivitalizzare quella preziosa eredità ricevuta come dono. Il nostro tempo, per divenire il nostro kairos, ce lo impone. Nella certezza poi che lo Spirito continua a mandarci uomini e donne che adempiono il compito di farci camminare verso la pienezza del Regno e che comunque, come ci ricordava Jacques Bossuet, «Dio scrive dritto anche sulle righe storte degli uomini».

Trovo utile e certamente stimolante, caro professore, questo tuo richiamo all’umiltà e alla sapienza. Credo tuttavia che siamo ancora troppo immersi in questo nostro tempo per avere pieno e giusto metro di giudizio sulla reale 'statura' degli «attori di oggi» nella vita della Chiesa. E per quel che vale, con il mio semplice sguardo da cronista, nei non più brevi anni del dopo-Concilio qualche 'gigante' del Concilio stesso figlio già l’ho visto e lo vedo all’opera…

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