mercoledì 5 agosto 2009
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Annunciando al mondo i timori per u­na corsa all’atomo anche in Myan­mar (o in Birmania, il nome impiegato dal­la diplomazia Usa che non riconosce la giunta militare al potere dal 1988), Hillary Clinton ha forse messo la parola fine non a una ma a diverse epoche. La prima è quel­la segnata dal Trattato di non proliferazio­ne nucleare, firmato da Stati Uniti, Gran Bretagna e Urss nel 1968 ed entrato in vi­gore nel 1970. In quell’anno, l’arsenale a­tomico mondiale contava quasi 40mila te­state e sarebbe arrivato a quasi 70mila nel 1986, in piena escalation alla deterrenza nucleare. Da allora, la situazione è migliorata in ter­mini quantitativi, ma si è complicata in ter­mini qualitativi. America e Russia sono sce­si a poche migliaia di testate, Francia, Ci­na a Gran Bretagna non sono salite più di tanto. In compenso, ai cinque Paesi a cui fu riconosciuto fin dal principio lo 'status nucleare' si sono aggiunti India, Pakistan, Israele (che potrebbe avere 400 testate) e Corea del Nord, e nessuno di questi Paesi aderisce al Trattato. Altri ci hanno provato: di recente l’Iraq (stroncato dal bombarda­mento israeliano del 1981), forse la Siria, l’Iran; in passato Sudafrica, Brasile e Ar­gentina. Il Trattato aveva tre capisaldi: disarmo, non proliferazione e uso pacifico del nucleare. Il primo è fallito (è cresciuto il numero dei Paesi dotati della bomba), il secondo pu­re, almeno nella so­stanza (il numero delle testate è calato, la minaccia però si è allargata), mentre il terzo si è trasforma­to in un boomerang. Perché dal nucleare civile a quello mili­tare il passo non è lungo e molti ne ap­profittano. Il che ha scardinato un altro dei principi-chiave del Trattato, quello per cui i Paesi dota­ti di armi atomiche non devono cedere tecnologie belliche ai Paesi che ne sono privi. Non è più ne­cessario: fornita la centrale, basta qualche scienziato per procedere verso l’ordigno. La seconda epoca che si chiude è quella della 'bomba nazionale'. Le ultime sono state quelle di India e Pakistan, da allora il rischio si è fatto più sottile. La 'bomba na­zionale' è sotto il controllo, almeno mora­le, appunto di un Paese. La bomba della Corea del Nord come quella che avrebbe voluto Saddam o quella che vorrebbero gli ayatollah e i generali birmani sono bombe di regime, servono a garantire la sopravvi­venza di questa o quella specifica dittatu­ra. Le lezioni contrapposte dell’Iraq (non l’aveva e Saddam è stato cacciato e giusti­ziato) e della Corea (avendola, Kim Jong Il resta al potere e incontra Bill Clinton) so­no 4 state ben assimilate. Ma c’è ancora una terza epoca che si chiu­de con le dichiarazioni della Clinton, in parte anticipate dagli interventi di Obama verso la Cina: l’epoca della corsa all’allar­gamento verso l’Est europeo della sfera d’influenza americana. Con la Nato, i rap­porti privilegiati (Paesi baltici, Polonia, Re­pubblica Ceca, Azerbaigian), il sostegno più o meno aperto alle rivoluzioni più o meno democratiche (Ucraina, Georgia), le iniziative strategiche nel campo dell’ener­gia (l’oleodotto Btc, da Baku a Ceyhan in Turchia attraverso Tbilisi) gli Usa hanno perseguito una politica di contenimento della Russia esagerata rispetto al reale pe­ricolo. La vera pressione sugli Usa arriva dalla Ci­na, tra l’altro l’unico ponte via terra tra Co­rea del Nord e Myanmar, fornitore e clien­te di tecnologie nucleari. Si è creato un cor­done militare che arriva fino alla Siberia (e siamo in clima di esercitazioni militari rus­so- cinesi), alle soglie dell’Alaska. E la Clin­ton ora parte per l’Africa, dove l’infiltra­zione cinese è già massiccia. La sensazio­ne è che tra questo viaggio e i timori e­spressi su Myanmar il nesso non sia ca­suale.
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