giovedì 8 marzo 2012
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Datemi un punto di appoggio e vi solleverò la terra. Anche in ambito etico valgono le regole della fisica: s’incomincia sempre inserendo la leva in un piccolo varco. Pian piano, con tale grimaldello, la porta viene forzata, fino a farci passare di tutto. È accaduto con l’aborto, trasformatosi in pochi anni da crimine, a evento da depenalizzare in casi particolari, a 'diritto' da garantire. Sta accadendo ora per la vita delle persone con disturbi prolungati di coscienza. Fino a non molti anni fa, idratazione e nutrizione facevano parte dell’assistenza di base, anche se 'assistite'. Poi in America furono ribattezzate come 'artificiali' e equiparate a trattamento medico, rifiutabili, quindi, in base al principio di autodeterminazione. Si garantiva, però che l’interruzione sarebbe stata autorizzata solo per chi ne avesse fatto richiesta nelle sue direttive anticipate. Poi la platea fu allargata, permettendo la ricostruzione della volontà 'presunta' del paziente, il percorso utilizzato anche in Italia nel caso Englaro. In assenza di una volontà del paziente, esplicita o presunta, prevaleva comunque il favor vitae, la presunzione d’interesse a restare in vita. Si trattava, tuttavia, di un fragile argine. Già dal 2006, infatti, le società mediche americane avevano convenuto che, nell’impossibilità di ricostruire la volontà presunta, la sospensione dei sostegni vitali avrebbe potuto essere autorizzata, se il rappresentante legale o il giudice lo avessero ritenuto opportuno «nel miglior interesse del paziente».

L’anello mancante della catena viene ora proposto sul numero di marzo della rivista Bioethics. Nell’articolo, Catherine Constable, della New York University, sostiene che la nutrizione e l’idratazione 'artificiali' dovrebbero essere sospese a tutti i pazienti in stato vegetativo permanente, salvo evidenza della volontà di essere tenuti in vita. L’onere della prova viene dunque ribaltato: chi non vuole morire deve averlo lasciato detto con chiarezza. Secondo il medico americano, la presunzione a favore del mantenimento della nutrizione e idratazione non sarebbe nell’interesse del paziente e causerebbe inutili costi per la società. Tuttavia, più che sugli oneri per il paziente e la società, il ragionamento di Constable fa leva sulla definizione di persona. Presupponendo (arbitrariamente) che il paziente in stato vegetativo sia privo di coscienza, l’autrice dell’articolo non lo riconosce più come un soggetto portatore di interessi e, conseguentemente, come persona umana. In linea con il pensiero di Peter Singer (sempre lui), il fatto che il paziente sia vivo o meno diventa, in tale schema, del tutto irrilevante dal punto di vista morale. Le conseguenze sociali e giuridiche sono evidenti: in assenza di una manifestazione di volontà del paziente o di una opposizione della famiglia, la scelta se tenere o no in vita il paziente sarebbe affidata a considerazioni di altra natura. Per esempio ai sondaggi: se l’opinione pubblica sembra non gradire il nutrimento attraverso un sondino, allora il trattamento dei pazienti che ne hanno necessità, basato sulla presunzione del favor vitae, rischia di violare un diffuso desiderio di autonomia.

La dottoressa Constable non sembra turbata dalla possibilità che il paziente possa uscire dallo stato vegetativo, un’eventualità non considerata nell’interesse del paziente, poiché avverrebbe al prezzo di una disabilità residua, tale da garantire «una vita – verosimilmente – peggiore della non esistenza». È la stessa mentalità per la quale in Olanda non sono stati sviluppati centri di riabilitazione per i gravi cerebrolesi, costringendo anche la famiglia reale a rivolgersi all’estero per trattare i danni cerebrali riportati in Austria dal figlio della regina a causa di una valanga. E se domani la sospensione d’idratazione e nutrizione venisse identificata come la prassi di buona pratica clinica, salvo specifica richiesta contraria? Non vi sarebbero discriminazioni per i medici che rifiutassero di operare secondo le regole? È uno scenario già visto in diversi paesi a danno dei medici che si sono rifiutati di eseguire aborti legali. Quali pressioni si eserciterebbero sulle famiglie che decidessero di lasciare in vita il congiunto? Dovrebbero assumersi esse l’onere finanziario delle cure? È già accaduto nel Maryland a Rachel Nyirahabiyambere, sottoposta a interruzione forzata dell’alimentazione e idratazione su ordine del magistrato, perché la famiglia non poteva pagare cure ritenute inutili «nel suo interesse». Anche per questo è importantissimo che nel testo sulle Dat all’esame del Parlamento sia mantenuto fermo il concetto che l’azione del legale rappresentante deve avere «come scopo esclusivo la salvaguardia della salute e della vita dell’incapace», invece che il suo «migliore interesse».

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