mercoledì 26 gennaio 2011
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Da alcuni anni il giorno della memoria, 27 gennaio, si celebra a Trieste con una cerimonia nella Risiera di San Sabba, che fu l’unico campo di sterminio nazista in Italia. Tra il 1944 e il 1945 vi furono concentrati i nemici del Reich e si parla di quattro o cinquemila vittime trucidate e cremate nel forno che sorgeva nel vasto cortile e di cui resta traccia sinistra su un muro.La Risiera è un edificio tetro e smisurato, dai rossi muri corrosi, dominati da una torre alta con lo spigolo arrotondato, forato da nere finestre come occhi accecati, è un edificio che già a guardarlo incute timore. Non so come abbiano potuto lavorare là dentro per tanti anni le operaie della pilatura, quelle donne che, proprio per essere donne, rappresentavano la vita e la maternità e la fecondità, tutto il contrario di ciò che sarebbe poi diventata la Risiera, il luogo della tortura e della morte; e non capisco come quelle ragazze, donne, femmine insomma, abbiano potuto trascorrere in quegli stanzoni tante ore, giorni e anni senza diventare pazze per la natura del luogo. Forse invece sono diventate pazze, perché quei muri grondano follia. Ogni volta che l’ho visitata, mi è parso di vedere la follia stillare dalle fessure tra i mattoni, dalle finestre inferriate, quelle finestre coi davanzali di pietra d’Istria e con gli archi ribassati, come ad arco ribassato sono le porte e i portoni, come ad arco ribassato è in particolare la porta della cosiddetta cella della morte, entrando subito a sinistra.Questo aspetto truce e minaccioso della Risiera la predestinava a diventare un luogo di angoscia e di delirio. La Risiera ha subìto una metamorfosi necessaria, si è tramutata da pileria in ammazzatoio, la loppa ha ceduto al sangue, le operaie sono state rimpiazzate dai carnefici, il lavoro dallo sterminio, le canzoni dai canti di guerra. I campi di sterminio non si possono concepire se non in certi luoghi e paesaggi; e Trieste, per la sua logistica e la sua storia, era la sede "logica" per un campo di sterminio italiano. L’unico, che non fosse in terra tedesca o austriaca o polacca. Perché Trieste fa già parte dell’Europa Centrale, anzi dell’Europa Orientale; e c’è una contiguità fra Trieste e la Germania, fra Trieste e la Polonia, tra la Russia e Trieste, i pogrom e gli eccidi e le carneficine avvenuti in quelle vaste pianure innevate, in quegli inverni tra isbe e villaggi miserabili, in quelle foreste di betulle e di conifere.Sarebbero potuti avvenire anche in questa città, che è legata all’Europa Orientale da una robusta corda di follia, da un’eco riverberante di omicidi e di stupri e di mazzate sulla nuca e di camere a gas e di camion col motore acceso rombante nella notte per coprire le urla e l’ansito continuo basso ruggente del forno che andava a tutto vapore, il fumo che si dissolveva acre e pesante nell’aria grigia, vicino alle case addormentate, o forse in veglia atterrita nella notte gelata, tra folate di bora cattiva dagli altopiani del Carso.Per capire bisogna aver visto le travi annerite, il pavimento sconnesso degli stanzoni, le celle di contenzione, quelle tremende diciassette celle soffocate dov’erano stipati fino a dodici prigionieri per volta, che dovevano stare in piedi anche per mesi nel lezzo delle feci prima di essere condotti al macello. Lo so, sono parole dure, ma sono parole: più dure sono state le persecuzioni, i massacri, le camere a gas, le cremazioni, dalle quali non c’è scampo nel cuore. Perché non si dimentichi.
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