Meglio andare alle radici del consenso per Putin
mercoledì 4 maggio 2022

Pochi hanno rilevato che Nicola II, l’ultimo imperatore russo, tra i suoi numerosi titoli, aveva anche quello di «Zar di Kiev». E non arriveremo mai a cogliere fino in fondo le ragioni profonde dell’odierno conflitto tra Ucraina e Russia se non saremo in grado di distinguere il carattere nazionale dell’Ucraina, che si è potentemente rafforzato in questi tragici e sanguinosi anni di guerra, e il carattere non nazionale di quella entità politica che chiamiamo Russia (e che un tempo si era soliti distinguere in Russia 'bianca', 'nera', 'rossa' ecc.).

Alla radice della Russia non c’è infatti il senso di appartenenza a una identità particolare (quale quello che caratterizza, oltre all’Ucraina, la Slovacchia, la Polonia e tante altre nazioni come ad esempio quelle balcaniche), ma il senso di reverenza verso un potere sovrano, la cui essenza si condensa perfettamente appunto nella parola Zar (che deriva, come è noto, dal latino Caesar, per alludere a un potere carismatico, prima ancora che giuridico e/o dinastico).

Quando Pietro il grande, «Zar di tutte le Russie», decise di dare al suo regime una consistenza continentale, decise di adottare per se stesso e per i suoi discendenti il titolo di Imperatore e di qualificare il proprio dominio come un Impero. Si noti però che nel- le intenzioni di Pietro la qualifica di Zar e quella di Imperatore dovevano restare affiancate e nessuna delle due poteva pretendere di assorbire o di escludere l’altra. Chi visita Mosca e in particolare il grande museo storico che si affaccia sulla Piazza Rossa (che, com’è noto, è denominata 'rossa' , non per riferimenti politici, ma solo perché in russo il rosso è, per definizione, 'bello'), apprende subito, dalle sintetiche ma chiare ed efficaci didascalie che accompagnano e illustrano le singole opere esposte, la differenza tra l’identità zarista e quella imperiale.

Pietro il grande esercitava come Zar il suo potere sui suoi sudditi slavi: un potere che essi non avevano alcuna difficoltà a riconoscere e venerare, al punto che erano più che pronti a sacrificare per esso la loro stessa vita – chi ama la musica russa conoscerà senz’altro quel capolavoro che è Una vita per lo Zar di Glinka. Come Imperatore, invece, Pietro il grande si rivolgeva ai popoli asiatici che aveva sconfitto e sottomesso e ai popoli europei, che non avevano mai conosciuto un potere zarista, ma che da secoli ben si erano adattati a riconoscere, sia pure con qualche variante, le diverse forme di potere imperiale che si erano presentate sul loro suolo. In sintesi, la finalità del potere zarista non era tanto quella di creare un sentimento nazionale russo (che in sé e per sé non è mai esistito), ma un efficace sistema di potere e di governo autoritario. Il che è esattamente quello che sta facendo (o sta cercando di fare) adesso Vladimir Putin.

Coloro che amano la democrazia diffidano del potere e cercano di limitarlo in tutti i modi possibili, convinti come sono che nel suo principio stesso è insito, per dir così, un malefico virus, che fa del potere e della guerra quasi le due facce di una stessa medaglia. Chi ama onestamente il potere (non sperando cioè di trarne un tornaconto personale) ritiene che esso invece sia una cosa buona e debba estendersi il più possibile, perché nel potere è da vedere l’ordine e, al limite, la stessa possibilità dell’amministrazione della giustizia.

Possiamo anche meravigliarci del consenso che Putin riscuote tra la popolazione che è chiamato a governare, ma non dobbiamo mai dimenticarci che non si tratta di un consenso ingenuo o politicamente manipolato, ma di un consenso che ha radici storiche e ideologiche sue proprie, anche al di là dei confini della cultura europea in senso stretto.

Se vogliamo intervenire su questo consenso (ammesso che sia lecito farlo, e che possiamo farlo efficacemente) dobbiamo mettere in conto un serrato e anche severo confronto con questa cultura. La democrazia è una parola magica e non dobbiamo mai dimenticarcene; così come, però, non dobbiamo mai dimenticarci che la difesa della democrazia, e prima ancora la sua custodia, è cosa ben difficile, e richiede lungimiranza per non costare – ne siamo tutti testimoni – tante lacrime e tanto sangue.

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