L’uomo che rese voce e carne la memoria viva della Shoah
martedì 10 dicembre 2019

Sento forte l’emozione nello scrivere di Piero Terracina, scomparso domenica scorsa a Roma a 91 anni, uno degli ultimi deportati di Auschwitz, ma credo sia necessario farlo, specie pensando alla recrudescenza razzista a cui assistiamo in Europa e purtroppo anche nel nostro Paese. La sua morte assomiglia alla caduta a schianto di un calcinaccio del Novecento, forse il secolo più sanguinario della storia.

L’incontro che ebbi con lui resta per me indelebile. È come se adesso risentissi la sua voce profonda, quasi tonante, al tempo in cui, sette anni fa, lo invitai a parlare ai miei studenti della Città dei Ragazzi, la comunità educativa capitolina fondata da monsignor John Patrick Carroll-Abbing all’indomani della Seconda guerra mondiale per accogliere i bambini abbandonati, dove insegnavo lettere presso la succursale dell’Istituto Professionale 'Carlo Cattaneo'. Erano adolescenti terribili, come li avrebbe definiti Jean Cocteau, quelli a cui io e miei spericolati colleghi ci rivolgevamo. Sedici, diciassettenni di borgata, tutti maschi, poco scolarizzati, spesso bocciati, con famiglie frantumate, esperienze a volte estreme, incapaci di stare fermi in aula. Bestemmiatori seriali. La loro attenzione poteva durare al massimo dieci minuti, dopodiché tu docente ti dovevi inventare qualcosa, altrimenti non saresti riuscito a contenerli. Io avevo spiegato la Shoah, un argomento distante dai miei allievi quanto potevano esserlo le guerre puniche.

Tuttavia alcuni mostrarono un’inconsueta attenzione, forse perché avevo raccontato del viaggio compiuto da Venezia a Birkenau, nel 1995, quando molti di loro non erano ancora nati, sulla tracce di mia madre sfuggita alla deportazione. Insomma, se lasciavi da parte il libro di testo e aprivi quello della vita, non dico tutti, ma qualcuno ti seguiva. Così, per tener vivo l’incantesimo, mi venne in mente di chiamare Piero Terracina. Sapevo quanto lui fosse impegnato in queste conferenze nelle scuole, ma non immaginavo ciò che sarebbe accaduto. Insomma decisi di rischiare superando timori, ritrosie e beghe burocratiche. L’anziano reduce si presentò nella grande Assemblea, pensata dal fondatore come un Parlamento dei Ragazzi, secondo il sistema pedagogico rivoluzionario dell’autogoverno, con la stessa solerzia che avrebbe potuto mostrare se avesse dovuto esprimersi nell’aula di Palazzo Madama. Si notava che a quell’incontro teneva tantissimo, al telefono mi aveva rivolto molte domande, conosceva di fama la comunità, ma voleva sapere chi erano i giovani che lo avrebbero ascoltato. «Hanno più o meno la stessa età che avevi tu quando stavi nel lager», gli dissi, guidandolo verso l’ingresso. Vidi i suoi occhi brillare di una luce speciale.

Quasi prima ancora di declinare le generalità, si tolse la giacca scoprendo la manica della camicia per farci vedere il numero tatuato: inchiostro nero fra i peli bianchi.

La classe restò catalizzata. Parlò a braccio per un’ora e mezza nel silenzio assoluto: una performance clamorosa pensando agli scolari che aveva di fronte. Il suo, più che un discorso, sembrò la secrezione di una ferita ancora aperta. In alcuni punti la tensione si tagliava con l’accetta: quando, rievocando le leggi razziali del 1938, Piero aveva dieci anni, raccontò il momento in cui il maestro lo invitò a uscire dalla classe perché in quanto ebreo non poteva più seguire le lezioni, vidi Romoletto, il mio alunno solitamente distratto, concentrato come uno studente oxfordiano. Ma l’istante supremo fu il ricordo della madre, costretta a separarsi dai figli sulla banchina del lager all’arrivo del treno: «Il suo sguardo diceva che non ci saremmo più rivisti», dichiarò Piero con le lacrime agli occhi. E noi, professori e studenti, ci alzammo in piedi di scatto ad applaudire per alcuni interminabili minuti.

Ci fu un secondo tempo, dopo il memorabile incontro. Nel giugno del 2012 Piero Terracina diventò, grazie alla sensibilità di Porfirio Grazioli, a quell’epoca presidente della comunità, cittadino onorario della Città dei Ragazzi. Lo andai a prendere in macchina alla Portuense, dove abitava. Cenammo all’aperto, insieme ai minorenni non accompagnati provenienti da ogni parte del mondo, fuggiti dalle nuove barbarie proprio allo stesso modo di quanto accaduto al vecchio deportato. E io, come un bambino, gli chiesi: perché gli uomini non imparano dal loro passato? Piero si girò con un mesto sorriso verso il volto fresco di Abdi, piccolo somalo scampato alla guerra che ci stava servendo il dolce e non aggiunse altro: era la sola risposta che mi potevo aspettare.

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