Un italiano nato nella seconda metà del XX secolo, al sentire parlare di "schiavitù" poteva, fino a vent’anni fa, pensare a un’ombra vergognosa nella storia, superata tuttavia da tempo nel mondo in cui era cresciuto. La Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948 l’abbiamo studiata più o meno tutti sui libri di scuola; e ci era parsa il definitivo capitolo, l’ultima parola su un evo buio. Già nel 2003 però nel codice penale italiano veniva introdotto il reato di tratta in schiavitù, nel momento in cui la caduta di vecchi confini riapriva la porta allo sfruttamento di masse di poveri. E i cronisti, come chi scrive, registravano con incredulità le storie di giovani donne dell’Est schiavizzate dal racket della prostituzione. Come oggetti, come fossero un niente: mentre solo pochi anni prima in Occidente le donne avevano rivendicato nelle piazze la loro libertà e autonomia.Da allora il mondo è come andato dividendosi in due ben distinti sottomondi: quello dei diritti civili garantiti, e l’altro, quello dei miserabili comprati, venduti, scambiati.Il tema del messaggio per la Giornata della Pace 2015 scelto dal Papa - «Non più schiavi, ma fratelli» - riaccende l’attenzione su quello che ci pare un anacronismo della storia; il riaffacciarsi dello sfruttamento più brutale fra gli uomini, oltre due secoli dopo la Dichiarazione sortita dalla Rivoluzione francese, che riconosceva inviolabili i diritti di ciascuno. In giorni, poi, come questi, in cui le cronache di una guerra feroce ci raccontano di donne sequestrate e fatte schiave - come se i secoli fossero passati invano.Se eravamo convinti che il progresso e il tempo lavorassero quasi naturalmente a costruire civiltà più giuste, ci troviamo a doverci bruscamente ricredere. Una nuova barbarie rinasce, arrogante e cinica come un tempo. E si direbbe quasi che questa voluttà di trattare le creature come merce l’abbiamo scritta dentro, in un angolo oscuro del nostro Dna. Radice nascosta, e però spietatamente tenace e resistente. Ma l’appello del Papa richiama a qualcosa di più che l’egualitarismo, pure giusto e necessario, sorto sulle ceneri dell’ultima guerra mondiale: non ci saranno più schiavi, dice Francesco, solo quando gli uomini si guarderanno come fratelli. Ora, perché si sia fratelli, comunemente parlando, occorre essere figli di uno stesso padre: occorre riconoscere questa origine comune. E forse non è un caso se il primo riapparire nel Terzo millennio della schiavitù sia avvenuto nelle "periferie" dell’Est, passate da un disastroso materialismo di Stato a un avido individualismo. Come se, quando si rinnega quella profonda origine comune, non occorra molto tempo per vedere riaffiorare la pretesa grifagna sull’altro, e il tentativo di possederlo e usarlo. E, d’altra parte, proprio un tragico presente ci mostra come certo integralismo religioso ricada nello stesso peccato: perché chi non è figlio del Dio "giusto", è un infedele senza dignità alcuna. E se ne può fare scempio, o commercio. Non più schiavi, ma fratelli, dice il Papa, enunciando in poche parole ciò che potrebbe proteggerci dal virus che ogni volta, debellato, risorge. Perché forse nemmeno la più ordinata e disciplinata democrazia pone al sicuro da recidive, se il male è fra gli uomini, magari dormiente ma endemico. Solo il riconoscere nel prossimo il volto di un fratello, quanto a nobiltà e quanto a miseria; solo il sapere depositario ognuno di una dignità unica e infinita allontana una primitiva velleità di sopraffazione. Quel germe in noi di male, che induce a trattare gli uomini come cose. All’alba del Terzo millennio il mondo, nonostante ottime leggi e solenni dichiarazioni, non pare diventato più umano. Una ferocia che credevamo sepolta dalla storia risorge. Quali altre leggi ci potranno salvare? O forse nessuna legge può bastare, se non c’è in noi un cambiamento del cuore.