venerdì 10 maggio 2024
Gli haredim rifiutano il servizio militare, ma il 7 ottobre ha cambiato l'approccio. Cresce il loro peso demografico. E la società laica spinge perché, come tutti, facciano il loro dovere per il Paese
Soldati di un'unità ultra-ortodossa di Idf durante l'addestramento in una base israeliana

Soldati di un'unità ultra-ortodossa di Idf durante l'addestramento in una base israeliana - Getty Images

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All’inizio della guerra si potevano distinguere i soldati di leva dai riservisti con un’occhiata: capelli corti e visi rasati i primi, come previsto dalle regole delle Forze di difesa israeliane; barba e capelli lunghi gli altri, che avevano avuto giusto il tempo di buttare due cose in un borsone per andare ad arruolarsi. Sette mesi dopo, la quotidianità sul campo ha uniformato un po’ tutto, e adesso a farsi notare, anche se è rarissimo vederle, sono solo le peot, i riccioli degli haredim, che spuntano dagli elmetti in alcuni battaglioni.

​La svolta dopo il massacro del 7 ottobre

Tradizionalmente, gli ultra-ortodossi rifiutano di servire il Paese, creando forti tensioni con la società laica regolarmente impegnata, e a caro prezzo, nello sforzo di difesa del Paese. Ma nell’ottobre scorso, pochi giorni dopo il massacro di Hamas, il portavoce di Idf, generale di Brigata Daniel Hagari, aveva detto che all’esercito erano arrivate circa 2.000 richieste di arruolamento dagli haredim, il dato più alto mai registrato. Nelle scorse settimane, i media israeliani hanno parlato di programmi sperimentali di addestramento avviati da Idf proprio per i giovani religiosi che vogliano partecipare ad attività di combattimento. L’esercito non ha poi fornito dati in merito all’effettivo coinvolgimento di questa fascia della popolazione. Di certo, qualcosa dentro le comunità più conservatrici sta cambiando. Mentre proprio sulla leva degli ultra-ortodossi si è aperta una faglia nel governo così profonda da poterlo fare crollare.

Chi sono gli haredim. Come funziona l'esenzione dalla leva

Haredi (che al plurale fa haredim) significa letteralmente “tremante”, ossia timoroso di Dio. Identifica le comunità di fedeli più osservanti. In base alla loro interpretazione della Torah, non si riconoscono nello Stato anzi lo contrastano, osteggiando il sionismo con diversi gradi di opposizione. Ci sono addirittura sette (quella dei Naturei Karta, per esempio) che si portano così tanto agli estremi da finire per identificarsi con le istanze della Palestina, di cui, per dire, espongono le bandiere sui balconi al posto di quella israeliana. Gli ultra-ortodossi in genere non lavorano – vivono con i sussidi di Stato – e rifiutano il servizio militare (che invece tutti gli altri nel Paese sono chiamati ad assolvere: tre anni per gli uomini, due per le donne, e una disponibilità alla riserva fino ai 40-50 anni a seconda dell’incarico) perché ritengono di doversi dedicare in via esclusiva allo studio della Torah. Vengono chiamati regolarmente alla leva (solo gli uomini) ma possono rinviare l’arruolamento fino al completamento del loro percorso nelle yeshivot (le istituzioni educative religiose ebraiche), e in pratica finiscono sempre per superare il limite di età per la coscrizione (26 anni) evitando il servizio militare.

Non esiste una legge che regoli questo processo: semplicemente, il ministero della Difesa approva ogni rinvio in base a un accordo specifico chiamato Torato Umanuto (traducibile dall’ebraico con: “Lo studio della Torah è il suo lavoro”) che risale al 1948. Il fondatore dello Stato, David Ben Gurion, acconsentì allora all’esenzione temporanea dalla leva di 400 uomini che studiavano in una yeshiva fintanto che quella fosse stata la loro occupazione, e questo costituì il precedente che è arrivato fino a qui. Il 7 ottobre ha rappresentato uno spartiacque. Molti, soprattutto dentro la fascia più evoluta della comunità haredi (tutt’altro che monolitica nella sua disposizione verso il mondo), hanno interiorizzato la minaccia, sentendo la spinta ad arruolarsi. Secondo un sondaggio dell’Haredi Institute For Public Affairs, accreditato centro studi di Gerusalemme sul mondo ultra-ortodosso, quasi il 30% della popolazione haredi è attualmente a favore dell’arruolamento nell’esercito, con un aumento del 20% dopo l’avvio della controffensiva su Gaza. La ricerca evidenzia inoltre come, dopo la guerra, il 73% della comunità haredi si senta solidale con il resto della società israeliana, mentre il 75% degli intervistati dichiara di ritenersi parte della storia dello Stato. E di voler quindi contribuire al suo sviluppo e alla sua sicurezza. Quando, nei mesi scorsi, alcuni giovani si sono presentati ai centri di arruolamento, sono stati guardati con minore ostilità nei quartieri di provenienza. I rabbini più aperti non hanno disapprovato. Tra i volontari è spiccato il nome di Yanki Deri, figlio di Arye Deri, uno dei fondatori del partito ultra-otrodosso Shas e attualmente ministro nel governo Netanyahu. La tensione tra isolamento e solidarietà sta però accompagnando tutta l’esperienza degli haredim che hanno chiesto di entrare nell’esercito. E in ruoli di combattimento. La televisione i24 ha potuto documentare l’addestramento di una piccola unità di soldati al confine con l’Egitto: 35 ragazzi determinati a fare la loro parte, ben consapevoli di essere, insieme, un’eccezione e il primo segno di un cambiamento. « Posso vestirmi di bianco e nero e posso indossare l’uniforme senza contraddizioni, rispettando la mia religione», ha spiegato Haim, uno dei soldati. Sottolineando come in effetti siano molto più benevoli gli sguardi con cui vengono accolti al rientro in comunità. In alcuni casi, tra gli applausi.

I numeri, la società laica e la Corte Suprema

I numeri, certo, sono per ora irrilevanti. Si parla di alcune centinaia di haredim reclutati nell’esercito. Ci sono unità combattenti operative da tempo. Quella più conosciuta è Netzah Yehuda, un battaglione creato nel 1999 proprio per consentire ai soldati ultra-ortodossi di servire secondo modalità compatibili con le loro esigenze religiose (preghiere, cibo, studio). Sta partecipando alla controffensiva a Gaza «con coraggio e professionalità», ha spiegato nelle scorse settimane il portavoce di Idf. Anche se l’operato di questa unità, di cui fanno parte anche giovani ultra-nazionalisti provenienti dalle colonie e dagli avamposti illegali (che si riconoscono nel sionismo religioso dei controversi ministri Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich), è finita recentemente sotto la lente degli Stati Uniti con l’accusa di violazioni dei diritti umani contro in palestinesi in Cisgiordania, dove il battaglione è stato a lungo dispiegato prima di venire trasferito nel Golan.

Con i numeri, però, i conti prima o poi andranno fatti. La popolazione ultra-ortodossa è in forte crescita: il tasso è del 4% annuo, mediamente il doppio della popolazione in generale, e il problema della coscrizione pesa sempre di più. Alla fine del 2022, secondo gli ultimi dati forniti dall’Ufficio centrale di statistica, gli ultra-ortodossi rappresentavano il 15% di tutti gli ebrei israeliani in età di arruolamento. E l’anno scorso sono stati 66mila quelli che hanno ricevuto l’esenzione dal servizio militare. Un record assoluto. «Con questi numeri – ha rilevato il capo dell’opposizione Yair Lapid –, l’esercito avrebbe avuto 105 nuovi battaglioni al servizio della sicurezza di Israele». Non è solo una faccenda politica. La società laica è sempre più insofferente nei confronti degli haredim, il cui stile di vita viene considerato parassitario e insostenibile. E la guerra ha portato agli estremi il problema.

In passato, ci sono stati molti tentativi per arrivare a una revisione delle intese sull’esenzione degli ultra-ortodossi. Nel 2002 è stata approvata una norma, la Legge Tal, che fissava precisi paletti, ma è stata molto osteggiata e infine dichiarata incostituzionale. La Corte Suprema si è ritrovata molte volte a discutere la questione. I giudici ritengono che le regole attualmente in vigore non soddisfino il requisito di un’equa condivisione del carico militare su tutta la Nazione. Ma tradurre l’assunto nella pratica è una sfida tra le più delicate, che si trascina da anni. Oggi, però, a guerra in corso, la questione della leva può diventare dirimente.

Il governo resta in piedi grazie (anche) ai due partiti che rappresentano gli ultra-ortodossi: Shas (per i sefarditi) e United Torah (per gli ashkenaziti). Sostengono con forza l’esenzione dei giovani religiosi dalla leva e addirittura hanno chiesto che venga inserita con un provvedimento ad hoc nelle Leggi fondamentali (l’architettura costituzionale di Israele, che non ha una Carta) in modo da non essere rivedibile. Minacciano di far cadere la maggioranza se le loro richieste non verranno soddisfatte. L’opposizione fa muro. Ma anche parte del governo. Il leader centrista Benny Gantz, ex Capo di Stato maggiore presente nel Gabinetto di guerra ma sempre su posizioni estremamente critiche nei confronti di Netanyah, ritiene che, mai come ora, sia urgente e necessario rivedere la policy sugli haredim, in modo da accrescere il numero dei reclutamenti. Il ministro Gadi Eisenkot (anch’egli presente nel Gabinetto di guerra) è con lui. E il ministro della Difesa Yoav Gallant si è detto disponibile a sostenerli.

Sin dalla scorsa estate, la Corte Suprema ha chiesto all’esecutivo di trovare una posizione comune su una legge di riforma – da presentare alla Knesset – che regoli la coscrizione degli ultra-ortodossi. Un accordo non è mai stato trovato. Così, il primo aprile scorso la Corte è intervenuta con una mossa senza precedenti, ordinando il congelamento dei fondi destinati agli stipendi degli allievi dei collegi rabbinici – nel 2023 è stata stanziata la cifra record di un miliardo di euro – fino a che non si sarà trovata una soluzione concordata. In sostanza: niente leva, niente soldi. I leader ultra- ortodossi sono andati su tutte le furie, minacciando addirittura di lasciare in massa Israele. Netanyhau ha vacillato. Appellandosi alla situazione emergenziale determinata dalla guerra, ha chiesto un mese di proroga per presentare un piano. A inizio maggio, ne ha chiesta un’altra. La prossima udienza per la valutazione del caso è fissata per il 2 giugno.

​Un cerchio che si chiude

Pensare che tutto è iniziato proprio così: con uno scontro sul tema della coscrizione per gli haredim. Era il 2019. Si era votato il 9 aprile: Netanyahu cercava una maggioranza e aveva trovato un accordo con i partiti religiosi Shas e United Torah per farli entrare nel governo offrendo loro rassicurazioni sull’esenzione dal servizio militare degli ultra-ortodossi. Avigdor Lieberman, leader del partito nazionalista laico Israel Beitenu, si mise di traverso, accusando Bibi di aver capitolato di fronte al «ricatto» dei movimenti religiosi. Il Paese sarebbe tornato a elezioni in settembre. E poi ancora per altre quattro volte. Sono passati cinque anni. E adesso è Israele a cercare una maggioranza. Senza Netanyahu, ormai a picco nelle preferenze (1213%) per una gestione della guerra consuderata inaccettabile. E facendo “leva sulla leva”, come una specie di riparazione.

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