Cristiani, cioè uomini e fratelli
sabato 9 giugno 2018

Quando ero ragazzo, nel mio paese per dire persona umana si diceva cristiano (anzi: cristià, in dialetto ascolano). Per molto tempo ho pensato che "cristiani" fosse il nome degli esseri umani. Non la sentivo una parola religiosa, e la maggior parte della mia gente la usava senza sapere che quel termine così comune era nato dalla religione. I cristiani erano gli uomini, le cristiane erano le donne. Quando uno sconosciuto bussava alla loro porta, prima di parlarci sapevano già il suo nome: era un cristiano – "è nu cristià", diceva mio nonno. Più tardi, ho imparato che cristiani era il nome con il quale gli uomini e le donne seguaci di Gesù furono chiamati ad Antiochia. Cristiani i buoni, cristiani i cattivi ("quello è un cattivo cristiano"), cristiani i sani, cristiani i disabili. Allora cristiani sono i moabiti e gli aramei, cristiano anche il figlio di Gionata "storpio in entrambi i piedi" – «arriva un povero cristiano», avrebbero detto i nostri avi se lo avessero visto arrivare arrancando sulla via di casa: lo hanno detto molte volte durante le guerre. Sono stati necessari molti secoli di storia, di amore e di dolore perché in Europa cristiano diventasse sinonimo di uomo. Oggi lo abbiamo dimenticato, anche perché sono state le guerre tra cristiani e i lager a farlo dimenticare a noi e a gli altri. Ma sarà ancora perché avranno reimparato a riconoscere le vittime che arrivano nelle nostre città e alle porte delle nostre case e avranno saputo accoglierli come cristiani, se nelle Antiochie di domani i cristiani saranno chiamati uomini.

«Il Signore salvava Davide in ogni sua impresa» (2 Samuele 8,14). Quando una nuova classe dirigente raggiunge il potere, un’operazione molto comune perché molto semplice per legittimarsi eticamente consiste nel discreditare la classe politica sconfitta, tramite la costruzione ideologica del passato. La Bibbia conosce molto bene questa tecnica retorica, e la usa molta volte, data l’importanza che in quell’umanesimo ha la lettura della storia dalla prospettiva di Dio. II successo militare e politico di Davide è un esempio noto e rilevante di questa tecnica narrativa. Sono brani costruiti ad arte da una mano molto abile a usare antichi materiali per creare il "mito" politico di Davide e di Israele. È l’apoteosi della religione economico-retributiva, che legge i successi come benedizione divina e le sconfitte (degli altri) come maledizione. Noi oggi sappiamo che l’ascesa di Davide al trono fu invece molto più controversa e ambivalente di quanto l’autore dei libri di Samuele ci vuole raccontare. Davide, in realtà, risultò vincitore al termine di una dura e lunga guerra civile contro Saul e i suoi figli. Molti dei materiali diversi e non allineati furono eliminati o alterati, ma alcuni sono sopravvissuti, spesso a dispetto dello stesso autore - i grandi libri sono tali perché hanno saputo resistere alle manipolazioni e ai narcisismi dei loro autori. Ma nella Bibbia, insieme alle ideologie dei suoi autori, grazie a Dio ci siamo anche noi, e dobbiamo esserci.

Noi sappiamo che i popoli conquistati e trasformati in servi e sudditi, erano popoli liberi che a causa di Davide perdettero la loro libertà, e possiamo e dobbiamo leggere quelle storie anche dalla loro prospettiva. Visti con i loro occhi, Davide appariva loro esattamente come gli Assiri e i Babilonesi appariranno secoli dopo a Israele: potenze nemiche imperialiste, che uccidono uomini, donne, bambini, animali, che distruggono economia, templi e l’identità nazionale, che deportano in esilio. Noi però non siamo giustificati e perdonati se continuiamo a leggere quei fatti con la stessa ideologia dello scrittore delle vittorie di Davide. Dobbiamo invece lottare con l’autore biblico, per aiutarlo a liberarsi dalla sua ideologia. E se ci proviamo ci accorgiamo che questa lotta è già presente dentro l’intera Bibbia. La ritroviamo anche all’interno dei Libri di Samuele, che all’inizio denunciano profeticamente i mali e le corruzioni della monarchia che il popolo vuole fortemente (1 Samuele 8,13), e poi lodano teologicamente quella monarchia e il suo eroe Davide. La Bibbia resta generativa e anti-ideologica finché siamo capaci di leggere in lettura sinottica il Cantico e Giobbe, Qohelet e Daniele, Paolo e Giacomo – anche se possiamo e dobbiamo esprimere le nostre preferenze etiche. Resta comunque aperta (almeno) una domanda: perché il redattore finale di questi capitoli, scritti dopo la conquista babilonese, la distruzione del tempio, dopo l’esilio, che grazie ai profeti aveva imparato a credere in un Dio vero e sconfitto, che aveva appreso che la verità non coincide con il successo, ci mostra ancora una storia di Davide segnata dall’ideologia della vittoria e del potere militare come benedizione? Non è facile rispondere a questa domanda che attraversa buona parte della Bibbia. Cercheremo di farlo un poco alla volta quando racconteremo i fallimenti di Davide e della sua discendenza. Ma subito possiamo e dobbiamo usare questi capitoli politici e ideologici per fare un esercizio morale e spirituale prezioso. Leggere che «Davide sconfisse anche i Moabiti e, fattili coricare per terra, li misurò con la corda; ne misurò due corde per farli mettere a morte e una corda intera per lasciarli in vita» (8,2). E poi nella stessa Bibbia leggere che Rut era una moabita, e che nella genealogia di Gesù di Nazareth è scritto: «Booz generò Obed da Rut, Obed generò Iesse, Iesse generò il re Davide (...) Maria generò Gesù» (Mt 1). Proseguire poi la lettura, e mentre scopriamo che «Davide uccise ventiduemila Aramei» (8,5), tornare col cuore alla preghiera dell’arameo errante di Mosè, a Rachele e Lia, figlie di un arameo, a quel popolo parlante l’aramaico, la lingua con cui fu detto il Padre nostro. Poi fermarsi, onorare il lutto per questi morti e per queste libertà perse per mano di Davide, sentire nella nostra carne il dolore perché l’arameo non può più correre libero.

Allora da queste complicate gesta di Davide possiamo imparare anche qualcosa di molto importante, che non era nell’intenzione dell’autore ma che deve essere nella nostra: tutte le guerre di cui ci parla la Bibbia sono guerre fratricide. Caino continua a operare, e travestito da Davide uccide ancora suo fratello. La Bibbia, se letta da questa prospettiva, ci dice che le nostre guerre, che nei nostri ateismi continuiamo ancora a leggere come guerre sacre e benedizione divina, sono tutte guerre fratricide, perché ogni omicidio è un fratricidio. Davide con quella corda stava misurando il legno della croce. Lui non poteva saperlo, noi però lo sappiamo, e per la misteriosa ma reale reciprocità della Bibbia dobbiamo ricordarglielo, dobbiamo ricordarlo. Ricordarci che quando occupiamo un Paese e uccidiamo uomini, donne, bambini, animali, stiamo uccidendo Beniamino e Giuseppe, i figli di Rachele l’aramea, stiamo uccidendo i figli di Rut la moabita e il figlio di Maria. Solo con questi sentimenti possiamo fare una buona e responsabile lettura delle imprese di Davide.
«Davide disse: "C’è ancora qualcuno della casa di Saul, che io possa trattare con la bontà di Dio?". Siba [un servo della casa di Saul] rispose al re: "Vi è ancora un figlio di Gionata, storpio nei due piedi"» (9, 2-3). Davide è giunto al culmine della sua ascesa politica. Ha sbaragliato tutti i suoi nemici interni e esterni, e regna su un impero che va dall’Eufrate al Nilo. Ma è proprio al culmine del suo successo che iniziano ad intravvedersi i segni del suo declino. Anche per Davide varrà la legge del "tramonto dentro il mezzodì".

La gestione della sua successione è un segno che dice che la traiettoria di Davide comincia a cambiare segno, ad assumere la forma di una parabola. Il testo ci dà alcuni elementi sul rapporto tra il re e l’unico superstite della casa di Saul. È un episodio molto bello e umano. Non abbiamo abbastanza elementi per comprendere bene le ragioni che spinsero Davide a informarsi sull’esistenza di quel figlio del suo amico, a distanza di molti anni dalla morte di Gionata (a quell’epoca Merib-Baal aveva cinque anni, ora è un uomo adulto). Ciò che colpisce è la somiglianza tra quella domanda di Davide («che io possa trattare con la bontà di Dio») e la domanda rivolta da Erode ai Re magi, che voleva «onorare quel nuovo re». È il resto del racconto a suggerirci quantomeno l’ambivalenza delle motivazioni di Davide. Merib-Baal arrivò a corte, «si gettò con la faccia a terra e si prostrò. Davide disse: "Merib-Baal!". Rispose: "Ecco il tuo servo!". Davide gli disse: "Non temere, perché voglio trattarti con bontà per amore di Giònata, tuo padre; ti restituisco tutti i campi di Saul, tuo avo, e tu mangerai sempre alla mia tavola"» (9, 6-7).

Una descrizione molto stringata. È comunque molto probabile che Davide si trovasse a gestire sentimenti contrastanti. L’antico patto di amicizia con Gionata porterebbe a leggere la restituzione delle terre di Saul a quel suo nipote come un atto di sincera generosità e onore per il figlio del suo grande amico. Il timore di Merib-Baal, a cui Davide e i suoi uomini avevano sterminato la famiglia, e la risposta che dà a Davide («Che cos’è il tuo servo, perché tu ti volga a un cane morto come sono io?»: 9,8), offrono invece considerazioni che non vanno dalla parte delle nobili parole di Davide. Ma ciò che rende difficile sostenere la non-ambivalenza di Davide è quel «e tu mangerai sempre alla mia tavola». Quale il senso di questa richiesta? È l’ambivalenza di Davide e di ogni potere: volere restare fedele ai patti con gli amici, ma anche tenere sotto controllo i potenziali nemici per la successione al trono. Merib-Baal sarà costretto a stare alla corte di Davide, in una gabbia d’oro, storpio e lontano dal suo unico figlio: «Merib-Baal aveva un figlioletto chiamato Mica... Ma Merib-Baal abitava a Gerusalemme, perché mangiava sempre alla tavola del re. Era storpio in ambedue i piedi» (9,12-13).

Davide non sapeva che i moabiti, gli aramei erano "cristiani", come non sapeva che anche Marib-Baal, storpio in ambedue i piedi, era "cristiano". Noi però lo sappiamo, e dobbiamo ricordarlo a Davide, che "non amava i ciechi e gli zoppi". Mentre continuiamo a crescere per e con essa, dobbiamo ridonare alla Bibbia i suoi personaggi arricchiti dalla nostra dote di umanità. Scendere giù per la Bibbia, arrivare fino a Sara e rimproverarla per come tratta Agar; indignarci per la benedizione che Giacobbe strappa a Esau; fermare la mano di Abramo prima che arrivino l’angelo e l’ariete; disperarci con Giobbe e Rachele perché i loro "figli non sono più", e poi arrabbiarci con Dio perché non risponde a Giobbe con parole all’altezza delle sue domande tremende perché umanissime. Continuare a gridare "perché?", con il Figlio in croce, e da duemila anni attendere che ci risponda.

l.bruni@lumsa.it

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