Alle radici dell’odierno nostro disagio c’è proprio la sottile sensazione d’impotenza, l’idea di rincorrere affannosamente qualcosa che di continuo si sottrae alla nostra comprensione
Mario Pomilio, Taccuino industriale
La nostra civiltà ama moltissimo la libertà individuale, protegge con tutte le sue forze la sfera privata delle preferenze delle singole persone. La stessa società occidentale moderna da almeno mezzo secolo ha sviluppato teorie e analisi per studiare anche i fallimenti della sovranità dell’individuo. Quei casi nei quali il gioco delle scelte basate sulle preferenze individuali produce effetti collettivi perversi. Perché non sempre la "mano invisibile" che trasforma e aggrega le scelte dei singoli genera buone trasformazioni collettive, né per gli individui né la per le società. Un pioniere e un classico di questi studi è il premio Nobel per l’Economia Thomas Schelling, che ha mostrato, tra l’altro, che la cultura che si afferma in una comunità è diversa dalle preferenze dei singoli membri che la compongono. Noto è il suo studio sull’auto-segregazione razziale involontaria nelle scelte abitative ("Dynamic models of segregation", 1971), dove dimostrò che affinché in una città si formino quartieri segregati di soli bianchi e quartieri di soli neri, non c’è bisogno che le singole persone pensino: "Io voglio stare in un quartiere di soli bianchi" o di "soli neri". È invece sufficiente che gli abitanti bianchi (o neri) pensino: "Non voglio abitare in mezzo a due case di famiglie di neri (o di bianchi)", e in certi casi è sufficiente: "Non voglio vivere accanto a tre famiglie diverse da me". Queste preferenze individuali, che in sé non sembrerebbero radicali, producono invece un esito radicale, e ci si ritrova in un mondo che nessuno vorrebbe e voleva.
Tutto ciò vale per la segregazione etnica ma anche per ogni forma di intolleranza collettiva, perché una cultura radicalmente razzista e intollerante può essere generata da persone non così razziste e intolleranti se prese una a una. Quella piccola "soglia" di chiusura che mi impongo, che alla mia coscienza non appare particolarmente intollerante, combinata con le piccole soglie degli altri finisce per diventare un alto muro. Come se in quel limite che metto alla mia tolleranza e diversità si insinuasse un tarlo che interagendo con i tarli degli altri erode la radice della convivenza civile. Per evitare questi esiti tristi e involontari dovremmo educarci a tenere le soglie di intolleranza molto basse, magari eliminarle – sta in buona parte qui ogni sfida educativa. Perché questi studi ci dicono che le collettività amplificano le barriere dei singoli, non le riducono. La pagliuzza nell’occhio dell’«io» diventa una trave del «noi»; e una volta creata, quella trave prende il posto della pagliuzza e impedisce la vista a tutti. Le analisi di Schelling sono tra le più importanti nelle scienze sociali contemporanee. Oggi sono applicate ai fenomeni climatici e alle scelte in materia di consumo, dove ci si ritrova con esisti collettivi e globali molto gravi e insostenibili anche quando le preferenze delle singole persone sarebbero più ecologiche. Questi esiti non dipendono soltanto dagli effetti indiretti delle nostre scelte (le note "esternalità"), ma da fenomeni più complessi che scattano aggregando le preferenze dei singoli individui.
Tutto ciò è particolarmente rilevante anche per ogni tipo di organizzazione e comunità. Ogni comunità genera una sua cultura collettiva e una identità che è molto evidente a chi la osserva da fuori – un po’ meno a chi la guarda dal di dentro. Anche qui succede che la cultura e le prassi che si generano siano più radicalizzate delle preferenze dei singoli membri. La cultura comunitaria che noi osserviamo non è la foto della cultura dei singoli. Ogni comunità sviluppa un suo stile, una sua personalità spirituale, un proprio linguaggio e gergo con tratti specifici ed espressioni comprensibili solo dai membri della comunità; genera modi di pregare, di muoversi, ammiccamenti, gesti, uno stile di abbigliamento... che si auto-rafforzano con il passare del tempo. Questi tratti collettivi non sono né la media né la somma né il prodotto dei comportamenti dei singoli, né il risultato dell’imitazione che tutti fanno di un leader (come accade invece nelle mode). Certamente, diversamente da altre istituzioni e organizzazioni, nelle comunità carismatiche il fondatore ha un ruolo speciale, ma la cultura collettiva non è la gigantografia del fondatore, né è da questi voluta - in questi processi il fondatore pesa più degli altri, ma non abbastanza da determinare la cultura collettiva. Le stesse correnti interne che si formano nelle comunità, cioè i circoli minori e i sotto-gruppi, che arrivano fino alla composizione dei tavoli nella mensa, sono risultati sovente generati da persone che, prese una a una, sarebbero più aperte e dialogiche dei gruppi chiusi cui danno vita. L’isolamento e auto-referenzialità, che all’esterno appaiono come tratti importanti e caratteristici delle comunità carismatiche, sono spesso fenomeni di auto-isolamento involontario.
Affinché nascano comunità segregate, dove i membri incontrano sempre le persone della propria comunità, non c’è bisogno di persone che non amino le relazioni sociali esterne alla comunità. È sufficiente, mantenendo i parametri del modello di Schelling e estendendone la logica, che i singoli membri inizino a pensare: "A me piace frequentare persone di altri gruppi e comunità, ma ogni due o tre incontri almeno uno lo voglio fare solo nella mia comunità". Una preferenza individuale, anche qui, non particolarmente chiusa e anti-sociale che però può generare involontariamente forti chiusure collettive e auto-segregazioni. Ciò spiega, tra l’altro, un fatto frequente e per molti misterioso, comunità che nel loro insieme si presentano (e spesso sono) chiuse e auto-referenziali, che però quando incontri le singole persone ed entri in un rapporto di confidenza con esse, scopri che individualmente sono molto aperte e socievoli. Al punto che qualche volta viene da esclamare: "Ma come ha fatto una persona così a finire in una tale comunità"? A questa esclamazione Schelling potrebbe rispondere: "Guarda, nemmeno la comunità voleva finire in questa comunità! C’è finita involontariamente".
Ma queste malattie e nevrosi sono prevenibili o curabili? Innanzitutto, se vogliamo essere onesti, le comunità carismatiche sviluppano questi esiti quasi inevitabilmente, sono forme di malattie auto-immuni, ma possono essere più o meno gravi in base alle misure che si adottano. Per prevenirle davvero – dato che la cura ex-post è quasi impossibile – dovremmo avere persone con soglie di apertura molto basse (1 su 5, ad esempio), o con soglie zero. Ma nessuna comunità nasce se i membri non si incontrano tra loro e se non rinunciano a qualche grado di libertà della loro socialità precedente. E più le comunità hanno bisogno di legami forti di appartenenza, più sono probabili le auto-segregazioni, dove il grado di parziale apertura iniziale del singolo diventa, collettivamente, chiusura. Così, molte persone entrano in comunità con il desiderio genuino di continuare ad avere appartenenze ad altri mondi vitali e a coltivare altre relazioni esterne, e poi si ritrovano in comunità dove incontrano soltanto persone della stessa comunità; inoltre - questo è un punto interessante – ciò accade senza che le persone abbiano cambiato preferenze individuali. Anche se con il passare del tempo è possibile e probabile che le preferenze individuali cambino inconsapevolmente giorno dopo giorno, e si allineino alla prassi collettiva.
Infine, questi meccanismi involontari possono spiegare (o quantomeno offrire intuizioni) altri fenomeni simili che si verificano al livello della singola persona e all’interno delle comunità. Qualche volta mi è successo di venire in contatto con comunità religiose dove era molto difficile "toccare" l’anima delle singole persone, che preferivano passare molte ore in preghiera o in adorazione piuttosto che parlare qualche minuto con me o con gli altri membri della loro comunità. La preghiera diventava una sorta di immunitas che proteggeva dalla communitas, una cortina invisibile che immunizzava dall’incontro autentico e immediato con gli altri. Questi esiti si possono (in parte) spiegare con la stessa logica: affinché una comunità si ritrovi soltanto con persone che trascorrono tutto il tempo libero in cappella e non interagiscono più tra di loro, è sufficiente che ciascuno coltivi questo tipo di preferenza: "Mi piace stare con le altre persone della comunità, certo, ma ogni due-tre incontri, un ’incontro’ lo voglio fare da sola in cappella". Anche in questo caso, preferenze individuali "leggère", una volta aggregate collettivamente generano persone auto-segregate - un’altra forma di "morte" o di malattia grave di una comunità. E si capisce anche perché è comune che i membri delle comunità carismatiche riducano col passare degli anni la rete di relazioni profonde di amicizia, all’interno e all’esterno.
Le buone regole, le norme sociali, i regolamenti delle comunità hanno anche lo scopo di prevenire queste malattie. Ma in un tempo in cui la sovranità dell’individuo e il rispetto (necessario) della privacy sono finalmente diventate importanti anche all’interno delle comunità spirituali, diventa sempre più difficile implementare azioni e norme che spezzino queste trappole involontarie. La vera prevenzione possibile è allora lavorare sulla consapevolezza dell’esistenza di simili meccanismi di chiusura involontaria. Tutti i membri di una comunità dovrebbero regolarmente chiedersi: quali sono i paletti invisibili che ho posto alle mie relazioni? Quanti rapporti sto vivendo con "soglie interiori"? Quante comunità vitali di ieri sto progressivamente perdendo? Quale è la varianza delle mie relazioni? Quali e quanti gradi di intolleranza sto coltivando dentro di me? Auto-test di discernimento difficili, ma non impossibili, soprattutto se la comunità offre strumenti per farli, magari insieme, anche quando non se ne avverte il bisogno. Nelle comunità si dovrebbero inserire procedure simili agli "screening" sanitari che le persone devono effettuare quando superano una certa età, a prescindere dai sintomi, al solo scopo preventivo. Scelte non facili per i responsabili, perché avvertono il rischio che qualcuno dopo il test scopra la malattia, che rispondendo a queste domande difficili vada in crisi, e magari finisca per lasciare la comunità.
Ma più forte dovrebbe essere in loro la coscienza dei danni prodotti dalla mancanza di questa prevenzione, tra questi l’estinzione della comunità stessa. Perché mentre nella prima fase di sviluppo della comunità, le preferenze delle singole persone sono meno rigide della cultura collettiva, a partire dalla seconda generazione le persone sono attratte soprattutto da quella cultura collettiva che si è generata involontariamente. E così, senza che nessuno lo voglia, le poche nuove "vocazioni" che arrivano sono in genere più chiuse di quanto non fossero i membri della prima ora – una volta diventati un quartiere di "soli bianchi" avremo soltanto nuovi vicini di casa bianchi. I nuovi arrivati con soglie più alte fanno crescere la chiusura della comunità, dando vita a circoli viziosi degenerativi. È così che spesso le comunità scompaiono involontariamente, se non si interviene decisamente e in tempo, in direzione ostinata e contraria.
l.bruni@lumsa.it