Mio Dio, ti prego: risorgi!
sabato 11 aprile 2020

Sporco sono, Milena, infinitamente sporco, perciò faccio tanto chiasso per la purezza. Nessuno canta così puro come coloro che sono nel più profondo inferno: è il loro canto che scambiamo per i cori degli angeli
Franz Kafka, Lettere a Milena

Risorgere, prima di essere una verità della fede cristiana, è una esperienza antropologica fondamentale. Fa parte del repertorio umano, è un esercizio che gli uomini e le donne sanno fare, è gesto essenziale. L’homo sapiens è animale capace di resurrezione. Lo vediamo anche in quel segno ineffabile ma reale che intravvediamo nell’ultimo sguardo di chi abbiamo amato, e lì sentiamo che quel saluto non è l’ultimo. E quando la morte impara a stare al suo penultimo posto – e ci vuole l’intera esistenza per impararlo – diventa "sorella morte". Se gli uomini e le donne non fossero morti e risorti molte volte, se non l’avessero pregata e attesa per secoli, non saremmo stati capaci di riconoscere quella Resurrezione, simile e diversa, del primo giorno dopo il Sabato. Ci avrebbe chiamato per nome e noi avremmo confuso la sua voce con quella del custode del giardino.

Dopo i primi due salmi introduttivi, salmi di benedizioni e di beatitudini, con il Salmo 3 entriamo nel territorio della preghiera. Questo salmo è attribuito a Davide, e ha un titolo: "Salmo di Davide. Quando fuggiva davanti al figlio Assalonne". Quell’antico scriba che appose questo titolo conosceva bene la storia di Davide, e quindi collocò questa preghiera in uno dei momenti più tremendi della vita del re di Gerusalemme: l’insurrezione di suo figlio Assalonne. Al di là della (dubbia) storicità di questa intestazione, il titolo del salmo ci dice comunque cose molto importanti – è bene non scartare nulla della Bibbia. Dal Secondo libro di Samuele sappiamo che in seguito all’insurrezione di Assalonne – il principe bellissimo dai capelli stupendi – Davide dovette fuggire da Gerusalemme: «Tutta la terra piangeva con alte grida. Tutto il popolo passava, anche il re attendeva di passare il torrente Cedron» (2 Sam 15,23). Un esodo all’incontrario, una fuga non verso una pasqua ma verso una passione: «Davide saliva l’erta del Monte degli Ulivi, saliva piangendo e camminava con il capo coperto e a piedi scalzi» (15,30). La via dolorosa del re più amato di tutti.

È in questo contesto che il salmista canta: «Signore, quanti sono i miei avversari! Molti contro di me insorgono. Molti dicono della mia vita: "Per lui non c’è salvezza in Dio!"» (Salmo 3,2-3). Siamo in un quadro di forte pericolo, il salmista si sente assediato da nemici e avversari. In questa difficoltà concreta e in questa paura, dentro quell’uomo si insinua anche una domanda religiosa. Nella Bibbia le prove più grandi non sono mai quelle soltanto materiali; è il loro significato religioso e spirituale che le fa diventare qualcosa di grave e spesso di tremendo. L’uomo biblico non ha paura tanto del dolore e della morte, ma del dolore e della morte interpretati come giudizio di Dio e quindi condanna morale.

Quella minaccia di morte diventa allora una domanda sulla giustizia della vita dell’autore del salmo, una domanda immediatamente religiosa: «Per lui non c’è salvezza in Dio». È la non-salvezza l’inferno della Bibbia, una salvezza che però non va collocata nella vita futura; nel mondo biblico il paradiso si trova sotto il sole, la terra promessa è un brano della nostra terra. La mancanza di salvezza è anche il non intervento di Dio nella sventura. YHWH è un Dio vero e non un idolo stupido perché è un Dio concreto, che quindi interviene nella vita; e se non fa nulla è segno che l’uomo/popolo in difficoltà non merita l’intervento di Dio a causa di una qualche colpa. Il silenzio di Dio diventa segnale di colpevolezza: «E noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato» (Isaia 53,4). Non si capisce la polemica teologica ed etica di Giobbe con i suoi amici (e con Dio) se non si ha ben presente che Giobbe vuole sfidare questa idea religiosa molto diffusa nel mondo antico e anche in alcuni brani biblici. La stessa sfida la ritroviamo anche nel Salmo 3.
Ma per comprendere qualche altra parola invisibile e importante nascosta tra le righe del Salmo 3, dobbiamo tornare alla storia di Davide e alla sua fuga da Assalonne. Mentre Davide sta lasciando, nel pianto, Gerusalemme, Simei, un discendente di Saul, «gettava sassi contro Davide… Così diceva Simei, maledicendo Davide: "Vattene, vattene, sanguinario, mascalzone! …YHWH ha messo il regno nelle mani di Assalonne, tuo figlio, ed eccoti nella tua rovina, perché sei un sanguinario"» (2 Sam 16,5-8). Un’accusa tremenda: Simei legge la ribellione di Assalonne contro Davide come pena del contrappasso per la ribellione di Davide verso suo "padre" Saul. Ma Davide non si difende, accetta quelle pietre scagliate e dice: «Lasciatelo maledire, poiché glielo ha ordinato il Signore» (16,11). Non c’è modo più saggio e mite di questo per leggere le pietre che la vita e gli altri ci scagliano contro. Ma anche qui ritroviamo in Davide la lettura teologica della sventura.

Nell’originale ebraico del Salmo 3, dopo il versetto tre troviamo inserita la parola selah: "fai una pausa". Il testo invita il lettore o la comunità radunata nel tempio o più tardi nella sinagoga a fermarsi, a prendere fiato prima di proseguire nel canto: «La parolina selah, che non viene né letta né cantata, esorta a rimanere silenziosi e fermi nella meditazione del senso: invita alla meditazione del cuore» (Martin Lutero). Anche noi facciamo qui una pausa, prendiamo fiato… Nello spazio interiore creato da questo silenzio, ci ritroviamo a Gerusalemme, attraversiamo di nuovo il torrente Cedron e raggiungiamo il Monte degli Ulivi. Poi accompagniamo un discendente di Davide, un nuovo "Figlio di Dio", fuori dalla città, verso un altro monte. E, alla fine, risentiamo parole molto, troppo simili, a quelle del Salmo 3: «Ha confidato in Dio; lo liberi lui, ora, se gli vuol bene. Ha detto infatti: "Sono Figlio di Dio!"» (Matteo 27,43). Neanche quell’uomo fece zittire i nemici che lo maledicevano. Anche quella volta arrivò forte la paura che l’abbandono degli uomini fosse anche l’abbandono di Dio: «Dio mio Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Matteo 27,46).

E ora possiamo continuare la lettura del salmo: «Ma tu sei mio scudo, Signore, sei la mia gloria e tieni alta la mia testa. A gran voce grido al Signore ed egli mi risponde dalla sua santa montagna» (3,4-5). Grido al Signore ed egli mi risponde. Nell’uomo Davide e in Gesù di Nazareth sorge il dubbio che quel dolore, quelle persecuzioni e quell’abbandono avessero a che fare con Dio – «glielo ha ordinato il Signore». Erano figli di un mondo dove tutto era simbolo, tutto conteneva messaggi divini. Ma se ci mettiamo a guardare le sofferenze umane dalla parte di Dio, nella Bibbia possiamo scoprire qualcosa di diverso – la Bibbia è anche e soprattutto una liberazione dai messaggi sbagliati che noi attribuiamo a Dio. Questo salmo ci dice che quando gridiamo l’abbandono "il Signore risponde": «Io mi corico, mi addormento e mi risveglio: il Signore mi sostiene. Non temo la folla numerosa che intorno a me si è accampata» (3,6-7). Un’immagine che sfiora quella del neonato che si addormenta sicuro e sereno tra le braccia della madre, mentre infuria la battaglia.

La Bibbia chiama l’uomo "figlio di Dio" (Salmo 2). Quando un figlio viene crocifisso, dalla cattiveria o dagli eventi della vita, il padre fa di tutto per toglierlo dalla croce, e se non ci riesce gli sta accanto e muore con lui. I padri non stanno dalla parte dei soldati che preparano il patibolo, perché la paternità è l’arte meravigliosa di schiodare i figli dalle loro croci. Se la Trinità non è solo teorema astratto, il primo stabat del Sabato santo è quello del Padre. La passione morte e resurrezione di Cristo non sono né lode né giustificazione della sofferenza umana – qualsiasi lettore che si avvicina senza ideologia a quelle pagine dei vangeli vi trova solo il racconto di una sofferenza ingiusta di un innocente che ha continuato ad amare nonostante tutta quella crudeltà. Dio Padre continua a rileggere e a rivivere con noi quello stesso racconto, ogni volta soffre nel riudire il grido del figlio la cui eco non si è ancora spenta perché si estinguerà solo nell’ultimo giorno, e piange come noi mentre vede il figlio che continua, nuovo Sisifo, a ripercorrere ogni giorno la stessa Via Crucis.

La è proprio in cima agli infiniti Golgota della storia che ci attende un’altra sorpresa stupenda racchiusa nel salmo: «Sorgi, YHWH! Salvami, Dio mio!» (3,8). Dopo il sonno c’è il risveglio, dopo la morte c’è la resurrezione: «Forse perché della fatal quïete tu sei l’imago, a me sì cara vieni, o sera» (Ugo Foscolo). Il risorgere di Dio è primizia della nostra resurrezione. Dio deve risorgere affinché possiamo risorgere anche noi. Ecco perché la prima preghiera è chiedere, a gran voce, a Dio di sorgere ancora dopo la notte, di risorgere dopo la morte. E così, nel primo salmo di preghiera troviamo la preghiera più grande: Dio sorgi, sorgi ancora, risorgi, perché devi risorgere, non puoi lasciarci in questo infinito Sabato santo. Non c’è preghiera più umana di questa: Dio, ti prego, risorgi. La preghiera di chi crede, ma anche la preghiera di chi ha perso la fede, di chi vuole ricominciare a credere dopo la morte di Dio.

Per secoli i cantori dei salmi avevano chiesto, a gran voce, a Dio di risorgere. Allora possiamo pensare che in quella notte di sabato davanti al sepolcro, in attesa e in preghiera, c’erano Abele, Dina, Agar, c’erano Giobbe, Rispa, Nabot, la figlia di Jefte, e tutte le vittime della Bibbia. In quella Resurrezione c’era anche la loro preghiera. E oggi c’è la nostra, che mentre vediamo il crocifisso ripercorrere senza sosta la sua via dolorosa non possiamo smettere di pregarlo di risorgere ancora, di implorare che le sue resurrezioni siano più delle sue morti – almeno una di più: «Bisogna immaginare Sisifo felice» (Albert Camus).
Buona Pasqua.

l.bruni@lumsa.it

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