Le ferite feconde del parto
sabato 3 dicembre 2016

Canto l’uomo che è morto, non il Dio che è risorto. Canto l’uomo infangato, non il Dio che è lavato. Canto l’uomo impazzito, non il Dio rinsavito
Roberto Roversi e Lucio Dalla

I canti del servo sono la vetta del libro di Isaia e uno dei brani più alti della letteratura spirituale di tutti i tempi. È un testo profetico e poetico mirabile, capace di raccogliere le attese e le speranze della storia che lo ha preceduto e di prefigurare un uomo e un Dio che ancora non c’erano. Parole improbabili, versi che nessuno aveva mai scritto, che non potevano essere scritti. E invece li abbiamo. «Come molti si stupirono di lui – tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo – sarà stupore alle moltitudini» (Isaia 52, 14). Come è possibile che un uomo sfigurato e deformato dalle sofferenze divenga stupore delle genti? Infatti il profeta si chiede: «Chi avrebbe creduto al nostro annuncio?» (53,1). E poi continua con parole che non possiamo leggere senza farci ferire dalla loro dolorosa bellezza: «Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori, esperto di ogni sventura, come uno davanti al quale ci si copre la faccia. Era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima» (53,2-3).

Non riusciamo ad intuire nulla della forza di questi canti senza considerare come era vista la sofferenza e la sventura nel mondo antico, anche in Israele prima di questi canti del secondo Isaia – e prima di Giobbe. Per le teologie del tempo, la sofferenza era la sorte dei peccatori o degli eredi dei peccatori. Non esisteva la possibilità del giusto sofferente. Gli spettatori e i lettori non provavano alcuna empatia spirituale con queste vittime. La naturale solidarietà degli uomini era coperta nell’antichità da teologie e teodicee prodotte per trovare un ordine giusto dentro lo spettacolo di ingiustizia che si svolgeva sotto il sole: «E noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato» (53,4). L’umiliato dagli uomini era anche castigato da Dio.

La straordinaria rivoluzione teologica di questi canti sta allora nell’innocenza della vittima: «Sebbene non avesse commesso violenza né vi fosse inganno nella sua bocca» (53,9). Poche parole, ma capaci di una svolta religiosa epocale: la vittima è un innocente. Il capro espiatorio, che col suo sacrificio spezza la ripetizione della violenza nella comunità, non ha alcuna colpa, è un agnello senza macchia. La vittima è immacolata: «Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca. Era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca» (53,7). È la fine dell’era della colpevolizzazione delle vittime, dei capri che si meritano la loro triste sorte. Il servo di YHWH è un capro innocente. Anche Giobbe era innocente, e per tutto il suo dramma difende la sua innocenza contro i suoi "amici" e contro Dio.

Ma nello svolgimento del processo di Giobbe, quando compare, Dio non dà ragione alla protesta di Giobbe: il Dio del libro di Giobbe non è all’altezza delle domande di Giobbe. Nel canto del servo di YHWH è diverso: attraverso le parole del profeta, è Dio stesso a dire l’innocenza del suo servo, a rivelarci una dimensione nuova del senso della sofferenza, che non era emersa nemmeno nello straordinario Giobbe – che pure è un libro rivoluzionario per la sua antropologia (e poesia). Il canto del servo segna allora la fine della doppia sventura dei poveri, dei deboli, degli scartati, dei piccoli, di tutte le vittime dei potenti, degli umiliati e schiacciati nella carne e nello spirito, oppressi dai potenti, dalla vita e da Dio, e al tempo stesso dei ricchi e potenti chiamati benedetti dalla vita e da Dio, ma svergognati dalla vita, condannati da Dio.

È la fine della religione economica, dove i poveri erano la moneta per pagare i debiti di uomini potenti bisognosi di tranquillizzare la propria coscienza mentre producevano e riproducevano le ingiustizie e i soprusi. I profeti (e Giobbe) sono i più grandi amici dei poveri, perché sono i principali nemici delle teorie manipolatrici dei grandi e dei forti, che associavano anche la divinità e i suoi sacerdoti alla propria causa – un messaggio fondamentale, oggi, quando in nome del merito e dell’efficienza il capitalismo tenta di nuovo di colpevolizzare i poveri e gli scartati. Ma la rivoluzione del servo non si ferma qui. Continua, e ci apre orizzonti ancora più incredibili e improbabili, interminati spazi. Il servo non è soltanto innocente, ma «si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori. Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità... Per le sue piaghe noi siamo stati guariti» (53,4-5). Come è stato possibile scrivere questi canti, pensarli, dirli? Da dove sono fioriti? Noi oggi abbiamo Cristo, i vangeli, Paolo, i martiri, san Francesco, padre Kolbe, e i tanti uomini e donne che ci hanno donato parole e verbi per capire o almeno intuire qualcosa di quelle parole. Ma lui? Dove ha imparato questi canti?

Certamente dalla sua gente: gli uomini e le donne del suo tempo sapevamo che le vittime e i poveri sono innocenti, anche quando la teologia dei potenti li voleva convincere del contrario. Lo sapevano gli uomini, ma ancora di più lo sapevano le donne, le madri. Sapevano che i loro figli erano innocenti, anche quando tutto diceva il contrario. Sapevano, e sanno, che nessun errore, nemmeno quello più grande, può farci uscire dalla benedizione della creazione, che l’innocenza è più profonda del peccato nostro e degli altri. Quando l’umanità smarrisce il senso di questa innocenza radicale, resta solo la vendetta perpetua, con la sua violenza infinita. Il "segno di Caino" è anche segno di questa innocenza, dice che la vendetta non deve essere, non è, l’ultima parola sulle nostre relazioni. Che non esiste colpa più grande della nostra innocenza. Ma il quarto canto del servo ci dice qualcosa di più. Il servo non era solo innocente: è stato trafitto per le nostre colpe, fu percosso, messo a morte, per i nostri peccati. Una comunità, forse un popolo, fu guarito a causa delle sue ferite. E qui tutto si complica. Quale il significato di questa "sofferenza vicaria", di questo dolore ingiusto di un innocente a vantaggio di altri?

Le civiltà, anche quella biblica, conoscevano questo tipo di sofferenza. Molti sacrifici avevano il loro significato nell’offrire la sofferenza di uno in cambio della benedizione per altri. Agnelli, ma anche bambini e vergini venivano sacrificati sugli altari degli dèi pensando che la loro sofferenza e morte espiassero le colpe della comunità, fossero offerta gradita a dèi affamati di sangue e mai sazi. Anche i bambini, gli animali, le vergini, erano innocenti, venivano scelti in quanto innocenti. Una visione espressione perfetta della religione economica e mercantile, che i canti del servo vogliono superare e rinnegare. Quale il senso della sofferenza di quel servo innocente? Non è sufficiente dire che il popolo lesse la vicenda di quell’innocente come presa di coscienza collettiva che in quella sofferenza stava avvenendo qualcosa che li riguardava, che uno solo stesse "pagando" per molti. Se fosse questa l’idea di Dio di questi capitoli del secondo Isaia, non avremmo alcuna rivoluzione teologica, ma saremmo sempre dentro l’antica teologia retributiva – come accade anche ad alcune letture teologiche della morte e passione di Cristo. Per capire la portata umana e spirituale di questi versi, occorre rischiare e osare di più. Dobbiamo leggere i canti del servo anche come esperienza personale del profeta, come racconto auto-biografico del secondo Isaia, o di un suo discepolo che lo aveva accompagnato e conosciuto molto da vicino.

Nessuno può leggere le nostre sofferenze come espiazione delle proprie colpe se noi non decidiamo intenzionalmente e liberamente di viverle come dono. Senza questa scelta di vivere e interpretare la nostra sventura innocente come liberazione di altri, qualsiasi lettura esterna della nostra sofferenza è una riedizione dell’arcaica teologia del capro espiatorio. Ecco, allora, perché questi versi splendidi possono essere letti come un’ulteriore rivelazione della vocazione profetica, forse la più intima, segreta, sublime. Un giorno, forse, al culmine della propria vocazione profetica in tempo di esilio, umiliato e reietto dal suo popolo e dall’oppressore, quel profeta ha scelto di vivere la propria sofferenza come ultimo passo di incarnazione della sua chiamata, come compimento con il corpo di quanto aveva detto con la voce. I canti del servo sono il canto finale del secondo Isaia. Ma sono anche il canto finale della vocazione di molti profeti, dei fondatori di comunità, di movimenti spirituali e ideali. Per queste persone, al vertice della loro esistenza e vocazione, arriva il canto del servo di YHWH. Per ragioni ogni volta diverse, arriva il tempo dell’umiliazione, del disprezzo e del rifiuto, dell’espulsione, delle infinite sofferenze, qualche volta dalla propria comunità.

Può così accadere che il profeta e il fondatore capiscano che l’unica cosa che possono e devono fare è restare muti, diventare agnello sotto la mano del tosatore. È il tempo delle stigmate. Per chi riesce a stare mansueto sotto la mano che lo lavora nelle sofferenze morali e fisiche, accade l’alchimia cantata dal servo: si capisce che in quell’abbandono crocifisso si sta rigenerando quella comunità e quel popolo, che quelle ferite erano anche le ferite del secondo parto. E il tosatore diventa anche il buon pastore. Solo quando le nostre sofferenze, che nascono dalla diversità, dalla cattiveria, e dalla vita, diventano intenzionalmente parto, lì rivive l’antico canto del servo. Accade il miracolo, tutta gratuità e tutto frutto di una intera esistenza vissuta seguendo la voce, che le proprie carni si trasformano nel corpo della comunità ferita e ferente. Per redimerla veramente e per sempre.
Sono esperienze molto rare, che fanno della terra un pezzo di paradiso: «Rallegrati, sterile, che non partorivi. Erompi in giubilo e gioisci, tu che soffrivi nelle doglie, perché sono più i figli dell’abbandonata che i figli della maritata» (54,1).

l.bruni@lumsa.it

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