E l'ultima tenda sarà tolta
sabato 13 agosto 2022

Così dice il dio Indra: «Offrimi un sacrificio, sono affamato»
Satapatha Brahmana, 11, testo vedico

«Daniele era intimo del re, ed era il più onorato di tutti gli amici del re. I Babilonesi avevano un dio chiamato Bel, al quale offrivano ogni giorno dodici sacchi di fior di farina, quaranta pecore e sei barili di vino. Anche il re venerava questo idolo e andava ogni giorno ad adorarlo» (Daniele 14,2-4). L’ultimo capitolo del libro di Daniele torna sui grandi temi della prima parte. Bel è il nome accadico di Marduk (Ger 50,2), figlio di Ea. Nella mitologia babilonese (l’Enuma Elis, II millennio a.C.) è il dio capo del pantheon che aveva creato l’ordine sconfiggendo Tiamat, il dragone dell’abisso, divinità femminile dell’oceano tempestoso e del caos primordiale.

Il racconto si apre con il tema del cibo per il dio Bel. Il cibo per gli dèi è comune a molte religioni arcaiche. Il popolo doveva "mantenere gli dèi" (il dullu), tenerli in vita nutrendoli e dissetandoli. Come dal re non si può andare senza doni e offerte (i re-gali), così non ci si può recare al tempio senza portare doni, cibo e vino al dio. Il nutrire gli dèi si intrecciava poi con la tradizione, vivissima in Egitto e anche tra i popoli italici, di nutrire i morti, soprattutto in occasione di alcune feste quando tornavano tra i vivi. Nella Mesopotamia si immaginava una corte divina simmetrica a quella umana, e quindi ogni giorno si nutriva il dio Marduk più o meno con la stessa quantità di cibo e bevande necessaria a nutrire il re e la sua famiglia. Il cibo per gli dèi era dunque un rito che si intersecava con il grande tema dei sacrifici agli dèi, che consistevano spesso in offerte di animali, di fiori e vegetali (la fave erano tipiche per i morti), di libagioni (liquidi) a volte versate sulle tombe dei defunti. Spesso il cibo offerto diventava anche evento comunitario davanti al dio che assisteva al banchetto e, qualche volta, aveva una sedia e un piatto a lui/lei riservati. Il tempio babilonese era dotato di cucine e stoviglie, camere da letto e stanze laterali per la famiglia della divinità. Il dio Marduk aveva una immagine nella sua stanza, il cibo era lasciato nel tempio ai piedi di questa immagine; poi si tirava una tenda mentre il dio mangiava, e quando veniva riavvolta il cibo non c’era più.

Se il dio è vivo e quindi opera, se i morti continuano una loro misteriosa vita, allora devono mangiare e bere, perché i vivi mangiano e bevono, inclusi gli dèi. I banchetti fraterni delle prime comunità cristiane, l’agape di cui ci parla san Paolo, conservavano tracce di questi banchetti sacrificali arcaici, ma con la novità radicale che nel banchetto eucaristico è Dio a nutrire noi donandosi come pane e vino. Per l’ebreo del II secolo a.C. che scrisse questo racconto su Bel, il dio Marduk non poteva mangiare il cibo perché il dio Bel era semplicemente un idolo e quindi non era vivo: era un pezzo di legno, uno spaventapasseri in un campo di cocomeri. Quindi per Daniele sbugiardare i sacerdoti di fronte al re, mostrando che erano loro che mangiavano il cibo e non Bel, era uno strumento potente per svelare la natura farlocca di quelle divinità: «Daniele però adorava il suo Dio e perciò il re gli disse: "Perché non adori Bel?". Daniele rispose: "Io non adoro idoli fatti da mani d’uomo…". "Non credi tu - aggiunse il re - che Bel sia un dio vivo? Non vedi quanto beve e mangia ogni giorno?". Rispose Daniele ridendo: "Non t’ingannare, o re: quell’idolo di dentro è d’argilla e di fuori è di bronzo e non ha mai mangiato né bevuto» (14,4-7).

Interessante notare un dettaglio. Il re crede che Bel sia vivo perché mangia e bene. Qui si svela un elemento decisivo in ogni culto idolatrico - di totem, di idee, di persone. Il dio mangia quindi è vivo: è il rito del nutrimento che dice la verità del culto, non il contrario. Il re babilonese per convincere Daniele scettico gli dice infatti: «Non vedi quanto mangia e beve ogni giorno?». È la liturgia quotidiana che crea il culto, ed è il culto che genera la cultura. Ieri nei templi babilonesi, oggi nei templi del capitalismo, dove la cultura viene alimentata da culti quotidiani di nutrimento degli dèi secolarizzati - per cercare allora di cambiare la cultura capitalista occorre cambiare i culti quotidiani di lavoro e di consumo, non illudersi che basti scrivere libri sulla cultura economica. Come il re di Babilonia non si faceva più la domanda sulla natura vera o finta del suo dio e la deduceva dal suo culto – mangia il cibo che gli portiamo: quindi è vivo –, anche noi abbiamo smesso di farci la domanda sulla verità delle nostre liturgie economiche, sulla loro giustizia ed equità: vediamo che il cibo scompare, e noi crediamo senza vedere (il capitalismo è, a modo suo, una fede). Una liturgia perfetta e infalsificabile finché non arriva un profeta a porre la domanda sulla natura del culto, su che cosa accade dietro la tenda. Ma, diversamente da Babilonia il nostro capitalismo non ha una sola stanza e una tenda e qualche decina di sacerdoti imbroglioni: il nostro è un palazzo con tremila stanze, con migliaia di tende abbassate che impediscono di vedere se e come mangia Bel, un universo di stanze velate l’una dentro l’altra; e così il lavoro di Daniele (o di Francesco) somiglia a quello di Sisifo: dopo l’ennesima tenda svelata se ne trova un’altra, e lo svelamento sembra non avere fine. La Bibbia ci dona comunque una grande speranza: alla fine l’ultima tenda sarà tolta, il mistero sarà rivelato. Questa speranza non è vana se resta vivo tra noi almeno un profeta, e se non dimentichiamo la Bibbia.

Nel racconto Daniele ha buon gioco nel mostrare il trucco dei sacerdoti. Accetta la sfida che gli propone il re di mostrargli che non è Bel a mangiare il cibo. Si reca con il re e con i settanta sacerdoti al tempio, il cibo viene deposto davanti all’idolo, e poi le porte e finestre sigillate. I sacerdoti «non erano preoccupati, perché avevano praticato un passaggio segreto sotto la tavola, per il quale passavano abitualmente e consumavano tutto» (14,12). Qui ritroviamo un’altra costante della Bibbia, soprattutto della tradizione profetica (Geremia, Osea): la critica ai sacrifici passa attraverso lo svelamento dei traffici economici e degli imbrogli dei sacerdoti. I sacrifici non sono utili a Dio ma sono utilissimi agli addetti al tempio che si nutrono dei peccati del popolo e delle loro idee religiose ingenue.

Daniele fece mettere della cenere nella stanza di Bel, e quando l’indomani il re constatò che il cibo era stato mangiato, «Daniele sorrise e, trattenendo il re perché non entrasse, disse: "Guarda il pavimento ed esamina di chi sono quelle orme". Il re disse: "Vedo orme di uomini, di donne e di ragazzi!". Acceso d’ira, fece arrestare i sacerdoti con le mogli e i figli» (14,19-21). Daniele sorrise, per la seconda volta: questo capitolo è uno dei pochissimi luoghi dove nella Bibbia un personaggio (come Sara) ride; ma se conoscessimo meglio la cultura rabbinica scopriremmo nei libri sacri molto humor, essendo la capacità di scherzare e di giocare una dimensione essenziale degli esseri umani (e forse anche di Dio), che quindi non può essere estranea all’umanesimo biblico che non lascia fuori dalla sua arca neanche uno iota di umano.

Il capitolo si conclude con l’episodio del drago, un animale caro a molta mitologia antica e medioevale: «Vi era un grande drago e i Babilonesi lo veneravano. Il re disse a Daniele: "Non potrai dire che questo non è un dio vivente; adoralo, dunque". Daniele rispose: "Io adoro il Signore, mio Dio, perché egli è il Dio vivente; se tu me lo permetti, o re, io, senza spada e senza bastone, ucciderò il drago» (14,23-25). Il drago era in Babilonia immagine del caos, e nella Bibbia di quei mostri marini tremendi dei quali il Leviathan è il più famoso (drakon è la parola che la versione greca dei LXX usa per tradurre "Leviathan"). Ma era anche normale nelle religioni antiche associare agli dèi degli animali, che, per la Bibbia, avevano la stessa natura idolatrica delle statue e delle immagini. Se il dio Bel è vanitas, anche i suoi animali sacri lo sono: «Daniele prese allora pece, grasso e peli e li fece cuocere insieme, poi preparò delle polpette e le gettò in bocca al drago che le inghiottì e scoppiò; quindi soggiunse: "Ecco che cosa adoravate!"» (14,27). La trama della storia si complica: il popolo accusa il re di «essere diventato un giudeo» (14,8) e lo minaccia di morte, e questi per paura consegna Daniele al popolo che lo getta nella fossa dei leoni, ricollegandosi così alla scena del capitolo 6. Ma, anche questa volta, Dio interviene, attraverso un profeta afferrato da un angelo «per i capelli» e trascinato dalla Giudea in Babilonia, salvando così Daniele dalla morte: «Alzatosi, Daniele si mise a mangiare. L’angelo di Dio riportò subito Abacuc nella sua terra» (14,39).

Con questa ennesima azione di YHWH si conclude il libro di Daniele, per ripeterci che il Dio biblico è prima di tutto un liberatore: dalle fosse dei leoni, dalla schiavitù, dagli idoli, quindi dalle idee di Dio sbagliate. Ieri e oggi, la Bibbia continua a essere viva se ci libera ogni giorno dalle schiavitù delle ideologie idolatriche, dentro e fuori le religioni. Se la Bibbia non libera e diventa un bene di confort, trasformiamo il suo Dio in un dio inutile se non dannoso.

Si conclude così questo viaggio iniziato venti settimane fa. Forse non credevo che Daniele fosse così bello, spirituale, etico e appassionante. Temevo che le sue visioni di angeli e di bestie mostruose ci avrebbero portato troppo lontano dalla nostra storia ferita da una guerra esplosa in Ucraina proprio mentre scrivevo a fine febbraio il primo articolo della serie: questo commento è nato in questo dolore e porterà per sempre le sue stigmate. E invece abbiamo scoperto che nella Bibbia anche l’apocalittica è storia, anche gli angeli ci spingono ad amare di più la terra. Alla fine ci restano le visioni, restano i sogni stupendi, ci resta il meraviglioso "Figlio dell’uomo" e il suo Regno che deve venire, e che verrà se non smetteremo di sognarlo e di pregarlo. Resta, ancora più forte, il desiderio di ricominciare a sognare Dio. Ce la faremo?

Dopo due settimane di pausa riprenderemo da settembre il cammino con una nuova serie. Non mi resta che ringraziare Marco Tarquinio: la prima gioia di questi articoli mi arriva il sabato pomeriggio quando mi ritorna l’articolo con le sue note, i suoi "emendamenti", il titolo fatto insieme e il suo occhiello introduttivo. Anche così quel mio primo testo diventa un’impresa collettiva, un bene relazionale di tutta la redazione (che ringrazio). Grazie infine a voi lettori per la benevolenza che sento crescere, in un viaggio dove mi siete diventati compagne e compagni necessari.

l.bruni@lumsa.it

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