Più bello è l'albero dei figli
sabato 20 ottobre 2018

L’altro, l’Uomo, è ab initio il reciprocante. Al contempo, non va dimenticata l’altra faccia della medaglia di questa capacità dell’altro di reciprocarmi. Tale capacità presuppone infatti che l’altro rappresenti una "vita umana" esattamente come la mia, e presuppone quindi l’esistenza di una vita sua e non mia, con un suo io e un suo mondo proprio, esclusivo, che non sono miei, che si trovano al di fuori, al di là, che trascendono la mia vita
José Ortega y Gasset, L'uomo e la gente


La famiglia, il lavoro, la scuola, sono faccende di reciprocità. La cura che doniamo resta imperfetta se non sperimentiamo, qualche volta, di essere assistiti da chi assistiamo, e nessuna educazione è efficace se mentre fa la sua lezione il docente non impara e cambia insieme ai suoi studenti. Anche il rapporto tra le comunità ideali e le persone che ne sono parte è una faccenda di reciprocità, che vive di una grande vicinanza unita a una reale distanza. Nulla, sulla terra, è più intimo di un incontro nello spirito tra persone chiamate allo stesso destino dalla stessa voce, quando nell’altro vediamo gli stessi desideri del nostro cuore, le stesse parole dette e non dette ci ritornano moltiplicate e sublimate. Si gioisce per le stesse cose, e la gioia aumenta nel vedere che l’altro sta gioendo per le medesime ragioni e allo stesso modo in cui stiamo gioendo noi.
Questa mutua inabitazione («s’io m’intuassi come tu ti inmii»: Dante, Paradiso) è però esperienza pienamente umana e umanizzante se convive con il rispetto di una forma di distanza, che protegge dalla tentazione di possedere l’altro, di appropriarsi di quell’eccedenza che si trova nel suo mistero. È principalmente dentro questo spazio libero e salvato dove vive e si alimenta la comunione, che però cresce e fa crescere finché lasciamo l’altro e il nostro cuore liberi entrambi di velare un "non ancora" che, solo in parte, domani potrà essere svelato.

Questa dinamica di vicinanza-distanza, già difficile tra persone, è ancora più ardua nei rapporti tra l’individuo e la sua comunità. Qui può infatti accadere che la comunione tra l’anima personale e quella comunitaria diventi un’operazione di sostituzione. La persona che arriva in una comunità ideale è affascinata e sommersa dalla bellezza e dalla ricchezza spirituale che incontra, che è molto più scintillante e seducente della piccola voce dentro che gli appare meno interessante e luminosa di quanto trova attorno e fuori di sé. Quella piccola dote con cui bussa alle porte della comunità non brilla e non può brillare, perché non è né una perla né un diamante: è, semplicemente, un seme. Ma è proprio in quella minuscola cosa che sta la possibilità di futuro buono, di innovazioni vere, di sorprese, di riforma, di grandi alberi e nuovi frutti, per la persona e per la comunità.
I responsabili dovrebbero allora far di tutto per tener viva e feconda quella intimità unica e speciale nella persona, che è precedente l’incontro con il carisma della comunità. E quindi dosare molto bene la trasmissione dell’eredità spirituale e ideale collettiva, con le necessarie cura e castità per non sommergere e soffocare quel piccolo seme primigenio.

Il principio di sussidiarietà, pilastro dell’umanesimo cristiano ed europeo, vale anche per la gestione del rapporto individuo-comunità: ciò che arriva dall’esterno, dall’alto e da fuori, è buono se è di aiuto (di sussidio) a ciò che è intimo, vicino, personale. Molto della qualità e tenuta di una storia vocazionale dipende dal dialogo sussidiario tra queste due intimità, soprattutto nei primi tempi; dalla capacità di non sostituire la prima intimità (piccola, ingenua, semplice) con la seconda (grande, matura, spettacolare). Perché è la prima intimità quel luogo dove vive e cresce un pensiero libero, attento, coltivato, critico, perché attinge a falde più profonde di quelle che nutrono il carisma comune. Pesca acqua direttamente nella tradizione spirituale che alimenta lo stesso carisma comunitario, e nelle tradizioni delle civiltà umane che fondano entrambe. È nutrita dalle preghiere di tutti, non solo dalle nostre preghiere, dalle poesie, dai romanzi e dall’arte dell’umanità intera, dall’amore e dal dolore di ogni essere umano e della terra.
Ma è quasi impossibile che questa sostituzione tra le due intimità non si compia, perché è prima di tutto cercata e voluta dalla singola persona. Questa sente forte il fascino delle nuove parole grandi che trova arrivando, anche perché avverte che ciò che le arriva da fuori era già presente dentro di lei, e che nella comunità carismatica viene potenziato ed esaltato. Conosce intimamente quanto le viene donato da fuori perché mentre lo riceve lo riconosce come qualcosa che le era già intimo. Quando invece trattiamo quella giovane come se arrivasse spiritualmente tabula rasa in materia francescana non facciamo altro che far morire in lei quella prima intimità che conteneva già cromosomi essenziali per far diventare autenticamente francescana se stessa e la sua comunità. I cammini spirituali autentici non iniziano ma continuano in una comunità, perché erano già cominciati fuori, in una prima intimità.

Dopo che Saulo incontrò il Signore sulla via di Damasco, arrivò da Anania, che lo battezzò e da quella comunità ricevette la fede cristiana. Ma Paolo ricordò e rivendicò sempre che la sua vocazione era stata precedente all’incontro con Anania, e quella voce continuò ad alimentarlo insieme alla stessa voce che gli parlava nella sua comunità, e che gli diceva ogni tanto parole che non capiva: «Il vangelo (...) io non l’ho ricevuto né l’ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo» (Galati 1,11-12). Nelle comunità il principale meccanismo di discernimento spirituale parte dall’intimità della persona e si compie nell’intimità collettiva che diventa l’esegeta finale delle parole individuali. Ma è essenziale anche il processo inverso, quando si torna nel dialogo della prima intimità per comprendere le parole collettive che non capiamo, e che una volta comprese dentro e ridonate fuori arricchiscono tutti. Quando manca questo secondo movimento, i membri della comunità tendono a diventare tutti troppo simili tra di loro, perché il luogo della biodiversità antropologica e spirituale, e quindi della ricchezza e generatività dei carismi, non è la seconda intimità, ma la prima.

Nelle nascite naturali, i bambini nei primi giorni si assomigliano molto e sembrano tutti uguali, e solo crescendo si differenziano e assumono i loro tratti specifici. Nelle nascite spirituali avviene invece l’inverso: all’inizio siamo tutti molto diversi, ciascuno con colore degli occhi e dei capelli unici; poi, una volta entrati in una comunità, tendiamo nel tempo a diventare spiritualmente sempre più simili, perché la seconda intimità vocazionale collettiva cresce a scapito della prima. E la fusione inebriante dei primi anni lascia il posto a parole comuni e uguali che parlano sempre meno.
Le comunità spirituali e profetiche fanno sempre molta fatica a riconoscere il valore della prima intimità per la grande stima e considerazione che hanno (e devono avere) per la seconda intimità spirituale collettiva. Spesso la vedono come l’unica necessaria, che ingloba e comprende la prima, che viene considerata come i "denti da latte" del bambini, che devono cadere per poter far crescere i denti adulti e definiti. E così non poche volte determinano, in buona fede, l’atrofìa progressiva del primo luogo vocazionale che sostiene anche il secondo – molti danni sono prodotti da molta buona fede, che però non annulla le conseguenze e il molto dolore.
Più una comunità ha una forte dimensione profetica e carismatica più le viene naturale e spontaneo sottovalutare l’esperienza spirituale precedente all’arrivo. Dimenticando così che ogni organizzazione, anche la più genuinamente carismatica, ha un continuo bisogno di auto-rigenerarsi, e il primo strumento di questa auto-generazione è la profezia delle sue persone, che però deve essere riconosciuta e poi avere lo spazio per essere coltivata. Anche il popolo di Israele ebbe bisogno di essere accompagnato per secoli da profeti giganteschi, nonostante fosse già una nazione santa e profetica. Senza i profeti che l’hanno continuamente rinnovata (e che il popolo continuava a uccidere) anche quella comunità diversa si sarebbe trasformata in un monolite religioso senza spirito. E che cosa sarebbe diventata la Chiesa senza le migliaia di profeti e di santi che l’hanno richiamata mille volte alla sua vocazione e alla conversione? Così accade anche per ogni comunità già carismatica per vocazione: l’arrivo provvidenziale di profeti, che custodiscono le due intimità, la salva e la converte ogni giorno.

La sostituzione della prima con la seconda intimità è anche la radice di molto malessere nelle comunità ideali e spirituali. La ripetizione e reiterazione per anni della stessa intimità collettiva, non più accompagnata e alimentata da quel primo dialogo intimo profondo, genera nelle persone progressive e radicali malattie identitarie. La grande energia investita nell’apprendere l’arte di rispondere alle domande sul "chi siamo noi?" consuma giorno dopo giorno la capacità di rispondere all’altra domanda radicale: "ma io, chi sono?". Qualsiasi persona che conosce l’essenziale dell’universo spirituale sa bene che "io chi sono?" è una domanda che non ha una risposta soddisfacente. Ma c’è un modo buono e un modo cattivo di non rispondere a questa domanda. Il primo nasce dalla consapevolezza che quella risposta cambia e cresce con noi, e che forse sarà l’angelo della morte a rivelarcelo mentre ci abbraccerà. Quello cattivo è invece la non-risposta che nasce dall’andare dentro il cuore e trovarvi solo tentativi di risposta composti con le parole collettive declinate al noi. Il costante e continuo esercizio di coniugazione dei verbi della vita al plurale ha consumato la possibilità stessa di un logos al singolare; non si risponde non perché la domanda non ha risposte convincenti, ma perché abbiamo dimenticato le regole grammaticali e sintattiche per capire la domanda.

Quando invece riusciamo a custodire quella prima intimità (e, grazie a Dio, capita spesso), a difenderla con tutte le nostre forze da noi stessi e dalla nostra comunità, ci ritroviamo con un grande tesoro nella vita adulta. Essa diventa il bene essenziale quando la seconda intimità della comunità si ritira – e deve ritirarsi –, e nel suo ritirarsi porta via con sé le parole, le immagini, i simboli con i quali avevamo abbellito la nostra vita spirituale e tutto il nostro mondo. Lì ci accorgiamo che in quella terra c’era ancora un albero. Lo abbracciamo, ci nutriamo dei suoi frutti e godiamo della sua ombra. E poi scopriamo commossi che è lo stesso "albero della vita" che avevamo visto nell’Eden del primo paradiso, perché era germogliato dalla custodia tenace di un suo seme vero. Sotto quell’unica ombra iniziano poi a radunarsi vecchi e nuovi compagni, e una nuova storia ricomincia.
Se invece nel giorno del grande ritiro delle acque nella nostra terra non trovassimo alcun albero, possiamo metterci alla ricerca disperata di un seme buono e affidarlo a quella terra feconda. Non sarà il nostro albero, sarà l’albero dei figli, e forse è più bello ancora.


l.bruni@lumsa.it

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