La ferita vivente che sa parlare
sabato 24 giugno 2017

«Rabbi Mendel si vantò un giorno davanti al suo maestro che la sera egli vedeva l’angelo che arrotolava la luce al venire dell’oscurità, e il mattino l’angelo che arrotolava l’oscurità al venire della luce. "Sì", disse Rabbi Elimelech, "L’ho visto anche io quando ero giovane. Più tardi queste cose non si vedono più».

Martin Buber, Storie e leggende

Le esperienze più profonde e intime sono preziose perché generate e vissute nel segreto impronunciabile del cuore. Ci donano una nuova profondità, ci fanno intravvedere una nuova interiorità che non pensavamo di possedere quando iniziavamo l’attraversamento del deserto, prima della lotta notturna, quando ci eravamo alzati di buon mattino per andare con la legna e col figlio verso quel monte tremendo. E invece abbiamo attraversato il deserto, combattuto con un angelo, siamo saliti sul monte Moria, e qualche volta ci siamo ritrovati con un figlio donato, con un nome nuovo, in una terra promessa, o l’abbiamo vista da lontano mentre vi entravano i nostri figli. Nelle esperienze decisive udiamo suoni e voci inarticolate, che ci scaldano e bruciano come il sole, ci dissetano e bagnano come l’acqua, che ci toccano, ci accarezzano, ci feriscono. Ma non parlano.

I profeti ci cantano la loro interiorità e le loro esperienze più intime per far parlare anche le nostre. Ci donano i loro dialoghi viscerali, le parole delle solitudini, dei combattimenti, delle domande quasi sempre senza risposte. Sono i grandi esperti delle parole delle profondità dell’uomo e delle profondità di Dio, dei silenzi dell’uomo e dei silenzi di Dio. Molti non credono che ci sia un Dio da qualche parte "sopra il sole" e che ci attende al termine della corsa; ma non possiamo negare che "sotto il sole" ci sono state e ci sono persone, i profeti, che hanno fatto parlare Dio nel cuore dell’uomo. Non possiamo negare quel virgolettato di Dio che è il profeta, perché è un fatto tutto umano, tutto carne e sangue. Possiamo discutere che cosa sia quel "Dio" di cui ci parlano e che fanno parlare, ma è senz’altro una realtà concreta, vitale, tutt’altro che astratta. Quando le religioni perdono contatto con il Dio dei profeti, si trasformano in pratiche che celebrano un Dio astratto che ha smesso di parlare, muto come gli idoli.

«Povero me, madre mia che mi hai generato, uomo di contesa e di litigio per tutto il paese! Non sono né un creditore né debitore di nessuno, eppure tutti mi maledicono» (Geremia 15, 10).

Madre, mamma mia. Non si nomina il nome della madre invano. Se e quando lo facciamo, violiamo il primo comandamento delle relazioni prime. Da bambini, "mamma" è la parola della vita, quella che fa vivere. Da adulti, e quando non c’è più, "mamma" viene quasi sempre accompagnata da "mia". Anche quando fiorisce spontanea di fronte a una emozione, se ci fermiamo un attimo e guardiamo da vicino quel "mamma mia" ci accorgiamo che esprime un sentimento viscerale, come quelle che ci hanno custodito dentro e fuori il grembo. Qualche volta, però, "mamma mia" è l’ultima parola che ci resta nell’otre delle parole del dolore e dell’angoscia. Nelle carceri, tra i condannati a morte, nell’ultimo letto dell’ultimo viaggio, quando anche l’ennesimo colloquio di lavoro è andato male, quando leggiamo il referto che non volevamo leggere…: "mamma mia!".

Anche questo canto-preghiera di Geremia inizia nel nome della madre, forse per tornare all’origine del suo nome e della sua vocazione. Non inizia la sua confessione con: "Mio Dio", ma chiamando sua madre. Torna "nato da donna", come tutti. Nei tempi delle grandi crisi si torna naturalmente alla madre, in cerca dell’origine più profonda e vera della propria storia. Qualche volta si torna anche nella casa materna, nei luoghi della vita prima che quella voce ci portasse via per un destino che non si comprende più. Quando la seconda casa sembra morire ed evaporare nel sogno e nella vanitas, si torna alla casa della madre per rifondarci su qualcosa di più vero, in cerca di una origine più radicale e vera di quella vocazionale. Nel giorno della vocazione Geremia sentì che le due origini – naturale e profetica – erano una («Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto, prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato»: 1,5). Ora, nel giorno della prova, le due origini si separano, e quella profetica si smarrisce. E il cordone ombelicale può diventare il primo filo per riallacciare una vita sfilacciata.

I profeti sono uomini e donne come noi; lo sono sempre, ma lo sono soprattutto quando il loro sole diverso si abbuia e restano terrestri figli della terra, fratelli e sorelle dell’adam. Non sempre e non tutti riusciamo a seguire e capire i profeti quando prestano la loro bocca a YHWH, ma tutti li possiamo capire quando nudi e poveri diventano mendicanti di luce, di vita, di madre, dell’origine, come noi. In questi momenti ci prendono per mano e ci insegnano il mestiere del vivere sotto il cielo di tutti. Quando scrive e legge pubblicamente questi versi, Geremia è un uomo adulto. Aveva speso gli anni migliori cercando di restare fedele alla sua vocazione, aveva svolto il suo compito con zelo e generosità («Ti ho servito come meglio potevo, mi sono rivolto a te con preghiere per il mio nemico»: 15,11).

Seguire onestamente la sua chiamata gli ha fatto vivere una vita nella solitudine («Non mi sono seduto per divertirmi in compagnia di gente allegra, spinto dalla tua mano sedetti solitario»: 15,17), deriso e odiato dai suoi concittadini e familiari, maledetto come e più di un usuraio o di un debitore insolvente. Ha dovuto annunciare al suo popolo un destino di rovina, combattere i falsi profeti consolatori delle illusioni. Ora non capisce più quella sua sorte che gli appare triste e profondamente ingiusta, e combatte con YHWH fino ad accusarlo di tradimento: «Sei diventato per me un torrente ingannevole, dalle acque incostanti» (15,18). Parole che ci potrebbero disturbare o apparire improbabili e stonate nella Bibbia solo se non conoscessimo Giobbe, il guado notturno dello Yabbok, se non conoscessimo i profeti, la vita, la fede, che cantano i loro versi più alti dentro l’agone, quando lottano con gli ideali più grandi che si sono trasformati in nemico. E così, anche in questa confessione di Geremia, al culmine della sua lotta incontriamo uno dei suoi versi più belli: «Perché il mio dolore deve durare per sempre, perché la mia ferita infetta e incurabile?» (15,18).

Siamo di fronte a uno dei vertici dell’auto-rivelazione della vocazione profetica, e quindi di ogni autentica vocazione umana – i libri dei profeti sono straordinari perché ci mostrano un volto diverso di Dio, ma lo sono anche perché ci fanno conoscere un volto splendido dell’uomo: la sua capacità di rispondere a una vocazione. Qui Geremia ci dice che la vocazione è una ferita, una ferita sempre aperta che non cicatrizza. Ci dice che la voce buona che un giorno ci rivela ciò che eravamo già da sempre, è anche un bisturi che per aprirci la nostra natura più vera, per svelarci a noi stessi, incide profondamente la nostra anima e la nostra carne. È una circoncisione del cuore, che però si compie sotto l’effetto dell’anestetico della luce amorosa che chiama e seduce. Poi seguono anni in cui il lavoro della voce-chirurgo continua e affonda, anche se tutto è solo immensa felicità: «La tua parola era la mia gioia e la mia letizia intima» (15,16). Ma l’effetto dell’anestesia progressivamente si esaurisce, e un giorno ci si ritrova soltanto con la ferita sanguinante, senza comprendere il senso del dolore e della ferita. Ci si scopre semplicemente una ferita inutile, un significante senza significato. Segno muto. Quell’apertura dell’anima che per tanti anni era stata il luogo dell’incontro e del dialogo con la voce, appare soltanto un taglio che fa male e che non si risana.

È questa trasformazione della prima apertura in ferita che segna l’inizio della fase più feconda di ogni vocazione, di quella misteriosa e tipica generatività, preziosa e rarissima. Il profeta è una ferita che parla, una spina perennemente conficcata nella propria carne, e ognuno ha il suo segno segnato che gli consente di in-segnare la parola. I falsi profeti, invece, o non hanno mai conosciuto il tempo dell’anestesia, o hanno continuato a usare oppiacei per non raggiungere mai il tempo vero della ferita. Nel bel mezzo del suo combattimento con YHWH, Geremia ha un nuovo incontro con la prima voce: «Di fronte a questo popolo io ti renderò come un muro durissimo di bronzo; combatteranno contro di te, ma non potranno prevalere, perché io sarò con te per salvarti e per liberarti» (15,20). Se torniamo all’inizio del suo libro, ci accorgiamo che Geremia qui riascolta le stesse parole del primo giorno (1,18-19). Qualche volta nelle tante agonie della vita adulta può capitare di riascoltare le parole della chiamata della giovinezza, ma quelle parole riascoltate non sono più anestetico né fanno rimarginare la ferita – anche se ci sono molte persone con autentica vocazione profetica che si bloccano perché quando l’anestesia ha esaurito il proprio effetto passano la vita ad attendere il balsamo per curare le proprie ferite, dimenticandosi di curare le ferite degli altri dove si trova l’unico balsamo per rendere sopportabili e feconde le proprie, che restano sempre aperte.

Nonostante questa nuova epifania interiore, la ferita di Geremia continuerà a sanguinare, fino alla fine, e genererà alcuni tra i canti più alti e sublimi della Bibbia. La ferita di Geremia non poteva rimarginarsi, perché, semplicemente, quella ferita era lui. Se si fosse rimarginata, se avesse usato i dialoghi con YHWH per consolarsi e guarire, oggi non avremmo parole diverse con cui gridare e pregare nei nostri combattimenti fecondi, non avremmo le sue pagine più grandi, non avremmo il suo libro. E non avremmo capito una legge fondamentale delle vocazioni più belle: che le abbaglianti luci dell’infanzia dello spirito sono un’anestesia amorosa mentre si compie l’operazione più importante della vita. Che la ferita è solo la forma che prende la prima luce nell’età adulta. E che da quella ferita che parla fioriranno le nostre parole più belle e vere.
l.bruni@lumsa.it

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