Come madri della parola
sabato 13 maggio 2017

Spero di tutto cuore che mi assolverete, non mi diverte l’idea di andare a fare l’eroe in prigione, ma non posso fare a meno di dichiararvi esplicitamente che seguiterò a insegnare ai miei ragazzi quel che ho insegnato fino a ora (...) Se non potremo salvare l’umanità ci salveremo almeno l’anima
Don Lorenzo Milani, Lettera ai cappellani militari, lettera ai giudici


L’ideologia è il primo strumento usato dalle classi dominanti nei tempi delle crisi. Prima della forza, del denaro, del potere politico, i capi (civili e religiosi) gestiscono le crisi dei propri imperi producendo ideologie, pagando gli ideologi, erigendo un sistema di propaganda capillare dell’ideologia. Più è grave la crisi, più essenziale è lo strumento ideologico. La principale forma che prende l’ideologia nel tempo delle crisi è la produzione sistematica e reiterata di illusioni collettive. Mentre i segni parlano chiaramente e soltanto di declino e di fine, le ideologie dapprima producono segni diversi inesistenti, poi li fanno diventare quelli principali, infine li presentano come gli unici. Le ideologie sono molte e diverse, ma hanno in comune la creazione artificiale di una realtà parallela che viene presentata come perfetta, che fa perdere progressivamente contatto con la realtà imperfetta e vera. Le ideologie illusorie che si sviluppano e crescono durante le crisi grandi e lunghe sono, forse, quelle più pericolose e devastanti, perché hanno il loro specifico nella
negazione della crisi. Si vive il tempo presente nell’attesa di qualche evento miracoloso, di una nuova rivelazione ancora segreta che salverà tutti, e la comunità è drogata da un oppio spirituale che aggrava e esaspera la crisi. Una manipolazione che dura fino a quando l’evidenza supera il punto oltre il quale diventa impossibile la negazione. Ma il "punto di non ritorno" a volte diventa quasi irraggiungibile, perché le ideologie più forti e potenti possono spingere l’elaborazione ideologica delle crisi molto in avanti, e non di rado anche le catastrofi e i crolli totali continuano, ex post, ad essere interpretate ideologicamente. Ci sono comunità annientate dall’ideologia, ma dove i membri superstiti continuano a negare l’evidenza e a cercare tra le macerie qualche conferma delle loro precedenti previsioni ideologiche.


Anche Geremia si è dovuto confrontare con questo tipo di ideologia e con i suoi effetti devastanti: «In quel giorno accadrà che verrà meno il coraggio al re e il coraggio ai capi, i sacerdoti saranno costernati e i profeti allibiti e diranno: "Ahi, YHWH, davvero hai ingannato pesantemente questo popolo, poiché tu dicesti: ’Avrete salvezza’! Ora invece la spada penetra fino alla vita’"» (Geremia 4, 9-10). Qui Geremia ci svela una dimensione sottile e decisiva del fenomeno ideologico. Ciò che stava accadendo a Gerusalemme era una sistematica produzione di illusione da parte di profeti pervertiti, alleati dei sacerdoti e della classe dominante. Questi avevano prima creato poi alimentato la cosiddetta "teologia regale del tempio", una sorta di nazionalismo religioso che proclamava l’imbattibilità di Gerusalemme, l’inviolabilità del tempio, e quindi negava il pericolo proveniente dal Nord (Babilonia). «Avrete salvezza» non era stata la parola di YHWH, ma dei falsi profeti e dei capi, che difendevano il loro potere illudendo il popolo. In questo contesto, Geremia vede chiaramente l’evoluzione di questa ideologia. Il nemico arriverà e distruggerà il regno, ma l’ideologia continuerà ad agire, salvando se stessa con la sola opzione che gli resta: il rovesciamento totale della realtà, attribuendo la creazione dell’illusione a YHWH stesso. Per salvare sé stessi, i capi del popolo condannano Dio.

È questa una operazione comunissima del potere, attuata tramite l’opera dei falsi profeti, ed è anche la "cartina al tornasole" per smascherare la falsa profezia. I falsi profeti, sempre abbondantissimi durante le crisi grandi, davanti al non compimento delle proprie previsioni, invece di riconoscere la falsità della propria parola, negano la verità di Colui in nome del quale avevano profetizzato. Sacrificano volentieri Dio perché, in realtà, era solo un idolo che usavano per ottenerne vantaggi. Tutti i falsi profeti sono atei, e sanno di esserlo - gli ex-profeti diventano atei perché si rivelano falsi profeti, non viceversa. Sacrificano Dio sull’altare dei propri interessi perché quel dio non valeva nulla per loro, era soltanto un totem, un flauto per incantare gli altri. In questo, il falso profeta è il capostipite di tutti coloro che davanti alla scelta tra il proprio interesse e la verità di un rapporto, scelgono sé stessi, rinnegando e uccidendo matrimoni, comunità, amicizie, aziende. Si sono serviti di Dio solo per fare carriera, e lo scaricano appena non conviene più.
Il profeta autentico, invece, è responsabile della parola che annuncia perché quella parola è carne della sua carne, è parola incarnata. Non può preferire la morte della parola alla propria morte, perché in lui/lei le due parole diventano una carne sola, come nelle nozze. Il martirio del profeta non è altruismo né generosità, è la sola scelta che possono fare per restare profeti.
È Geremia stesso a dirci, meravigliosamente, il rapporto intimo tra la parola e la sua carne, in un verso stupendo, un assoluto della letteratura profetica: «Le mie viscere, le mie viscere. Mi contorco, sono straziato. Il cuore mi scoppia in petto, mi batte forte» (4,19). Un capolavoro spirituale, che squarcia il velo dell’anima del profeta, uomo di Anatòt, e ce lo rende nostro contemporaneo - o, meglio, noi suoi. Ma soprattutto ci porta dentro il suo mistero, e quello di ogni vocazione umana vera.

Geremia, profeta autentico, può e deve dire solo quanto vede e sente. Vede e sente sventura e distruzione per Gerusalemme, e la grida. Non può emendarla, stravolgerla, altrimenti diventerebbe semplicemente un falso profeta, come tanti, come quasi tutti. Ma quel popolo cui annuncia la sventura è il suo popolo, è la sua gente. Sta qui il valore dei profeti: soffrire, contorcersi, per le parole che annunciano ma non essere liberi di non annunciarle.
Questa sofferenza accompagnerà Geremia (lo vedremo), ma è una nota centrale del mestiere del profeta, particolarmente forte e straziante nei tempi delle grandi crisi e delle grandi illusioni. Il popolo vorrebbe credere che la crisi passerà presto e tutto tornerà bello come prima, che il calo di vocazioni nella comunità è transitorio, che le chiese torneranno a riempirsi; e invece il profeta-non-falso dice, se così vede e sente, che la crisi si esaspererà, che le vocazioni saranno sempre di meno, che le chiese continueranno a svuotarsi. I profeti non sono sempre profeti di sventura, annunciano anche cose splendide - nascita di bambini, un germoglio, il ritorno del "resto", un messia. Ma è la profezia della sventura il vero test della verità e qualità di un profeta, dove può perdere l’anima o fiorire in anima mundi. Troppe vocazioni profetiche si guastano per incapacità di resistere nell’annuncio di cose scomode e dure - per il popolo e per il profeta. Il profeta vero, poi, sente nella sua carne tutta la sofferenza per quelle vocazioni mancanti, per quel vuoto nelle chiese, per la distruzione della città. Il profeta è madre della parola che pronuncia ("le mie viscere, le mie viscere…"). Fa l’esperienza di chi vede il figlio avviato definitivamente verso la strada dei porci e delle prostitute, e lo vede già in azione nei porcili e nei postriboli («Si affollano nelle case di prostituzione, sono diventati stalloni ben pasciuti e focosi. Ciascuno nitrisce dietro la moglie del suo prossimo»: 5,7-8).
I sentimenti di Geremia qui non sono quelli del "padre misericordioso" che aspetta con speranza il ritorno del "figliol prodigo", ma quelli di chi soffre perché il figlio, il fratello, l’amico non torna e non vuol tornare. Sulla terra sono pochi i figli che ritornano dalle ghiande, ma sono molti quelli che vi restano. E tanti genitori e amici possono solo, come Geremia, "contorcersi nelle viscere" per il dolore di questi non-ritorni. I figli non tornano, noi soffriamo, e loro continuano a non tornare.

La prima resurrezione che opera la Bibbia (e anche la grande letteratura e la grande arte) è il suo farsi prossimo dei crocifissi, avvicinarli, guardarli, prima che giunga l’alba della resurrezione, imprigionati in un perenne sabato santo. È così che raggiunge e tocca le nostre ferite più profonde, quelle mai guarite, e le bacia. Le ferite non guariscono con i baci, ma il nostro cuore, forse, sì. Se la Bibbia contenesse soltanto i racconti dei figli che tornano, delle figlie che risorgono, dei guariti che tornano a ringraziare, degli schiavi liberati, sarebbe soltanto una edificante raccolta di storie a lieto fine, o un libro di racconti consolatori. L’immenso valore spirituale e umano della Bibbia sta anche per la presenza delle pagine sulle viscere contorte di Geremia per fratelli e figli persi e che non può salvare, quelle di Abele ucciso da un fratello, di Giobbe che continua a urlare innocente sopra il suo mucchio di letame, ad attendere un Dio che non è ancora arrivato, che forse non arriverà, ma che continua ad essere atteso e bramato come il "Dio del non ancora" perché liberato dalle illusioni. La maggior parte delle storie vive e vere non hanno un lieto fine; ma se c’è (e c’è) una letizia del vivere questa ci aspetta oltre le illusioni, quando avremo imparato a incontrare le resurrezioni dentro i crocifissi. I luoghi sulla terra dove possiamo sperare di essere sorpresi dallo Spirito, somigliano di più al Golgota che al Tabor. Sulla terra, e, forse, anche in cielo.

L’onestà di un profeta si misura sulla base della sofferenza per le parole vere che dice. Ogni onestà si misura solo così, quando per salvarci potremmo dire parole diverse e ruffiane, ma non le diciamo, e ci salviamo davvero, anche se tutto attorno a noi dice il contrario e parla di insuccesso e di fallimento. I doni dei profeti nel tempo delle sventure sono soltanto l’onestà delle loro parole vere e le loro viscere contorte. Insieme. Le viscere sono la cassa di risonanza delle note del loro canto. Così vero e onesto da riuscire a toccarci e a parlarci ancora, a consolarci nelle nostre sventure, a proteggerci dai molti venditori di illusioni.

l.bruni@lumsa.it

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