Quell'esilio che è benedizione
sabato 19 agosto 2017

Per i veri sapienti ogni luogo del mondo è un esilio. È immaturo l’uomo che considera dolce soltanto la sua patria. È già più forte colui per il quale ogni terra è come il proprio suolo natio. Ma perfetto è l’uomo per il quale l’intero mondo è come una terra straniera

Ugo di San Vittore. Didascalicon, XII


«Distruggere e demolire, abbattere e sradicare», sentì risuonare Geremia il giorno della sua vocazione profetica. Ma insieme a queste parole ne udì altre due, diverse e complementari: «edificare e piantare» (Geremia 1,10). Non basta annunciare scenari cupi di sventura per essere profeti non-falsi, perché la terra è piena di persone che dipingono, a volte persino in buona fede, un presente e un futuro disperati solo per raccogliere il consenso dei tanti disperati che si alimentano di disperazione. Geremia non illude i suoi concittadini promettendo un benessere e una pace immaginari; ma mentre profetizza questa verità amara e scomoda sa dire parole di speranza vera e sublime.
Come quella immensa speranza contenuta nella lettera che Geremia inviò agli ebrei deportati in Babilonia. Era indirizzata «al resto degli anziani in esilio, ai sacerdoti, ai profeti e a tutto il popolo che Nabucodònosor aveva deportato da Gerusalemme a Babilonia» (29,4). Continuando la lettura del testo della lettera ci ritroviamo dentro a qualcosa di inedito e di stupendo, che sorprende e commuove per la sua altissima umanità: «Così ha parlato YHWH, Dio d’Israele, a tutti gli esuli che ho fatto deportare da Gerusalemme a Babilonia: "Costruite case e abitatele, piantate orti e mangiatene i frutti; prendete moglie e mettete al mondo figli e figlie, scegliete mogli per i figli e maritate le figlie, e costoro abbiano figlie e figli. Lì moltiplicatevi e non diminuite"» (29,1-6). Parole che ci lasciano ancora tramortiti per la loro intensa bellezza. Negli esili non possiamo ascoltare parole di speranza più vere e alte di queste di Geremia. In ogni esilio.
Quando la vita ci conduce lontano da casa, emigrati per libera scelta o deportati da qualche impero visibile o invisibile, possiamo vivere l’esilio come maledizione e rabbia, oppure possiamo seguire i consigli di Geremia. Possiamo costruire case e abitarle, piantare orti e lavorare, amarci, sposarci e poi mettere al mondo figli e figlie, e vedere i figli e le figlie dei loro figli e delle loro figlie. Quegli immigrati che anche senza conoscere Geremia hanno vissuto così il loro ’"esilio" si sono salvati, hanno fatto di quel tempo difficile un tempo propizio, sono diventati benedizione per chi era rimasto nella prima patria e per i concittadini della nuova patria. Hanno costruito una casa, non una tenda, perché hanno voluto abitare quella terra e non solo transitarla, depredarla o alloggiarvi.

Il giorno in cui si inizia a costruire o si compra una casa in una terra straniera si diventa veri cittadini di quel paese, in virtù dello ius soli della legge della terra e della vita. Perché si costruisce una casa per dire futuro, per dirci e dire che in quella terra ci vogliamo amare, sposare, che in quelle stanze concepiremo e faremo crescere figli e figlie – che un giorno potranno anche pervertirsi e odiare, ma noi potevamo solo costruire una casa e amare: e lo abbiamo fatto.
Costruire una casa ha, nell’esilio, lo stesso valore che ebbe per Abramo l’acquisto, in terra ittita, della terra per seppellire Sara. Perché costruire una casa o una tomba rende la terra dell’altro anche mia, e fa di quella terra caparra di cielo. Come don Lorenzo Milani, che il giorno dopo essere arrivato a Barbiana va in Comune e, a 31 anni, si compra una tomba nel cimitero della sua nuova parrocchia, per dire che la terra dell’esilio era già diventata la terra della unica vita buona e vera possibile oggi, e quindi della morte di domani – che è sempre vera, anche se non sempre buona.

Edificare case. Piantare orti. Quindi lavorare. Quando i nostri nonni arrivavano in America o in Belgio la paura del futuro e il dolore del passato iniziavano a svanire non appena cominciavano a lavorare. Piantando orti, costruendo case (di altri), quella terra diventava anche loro, frutto della loro con-creazione. Un muro o una galleria in miniera diventavano brani di terra promessa grazie al lavoro delle loro mani, che rendeva mansueta la vita, la lingua, il cibo. Dura e man-sueta. Lavorando fioriva quella solidarietà-fraternità vera tra lavoratori parlanti lingue diverse, che però parlavano tra di loro con le mani e con le lacrime del lavoro buono e di quello cattivo. E anche nei grandi esili delle guerre e delle carceri spesso la resurrezione incomincia quando si può tornare a lavorare, o quando si apprende, finalmente, un lavoro vero. E anche oggi, l’amicizia con i nuovi esiliati e immigrati può nascere e rinascere se e dove riusciamo a lavorare insieme. Fratello lavoro.

Sposarsi, mettere al mondo figli e figlie. A Geremia, YHWH aveva chiesto di non sposarsi e di non avere figli né figlie (cap. 16), e così non conobbe la gioia di una moglie, dei figli e delle figlie durante il suo esilio profetico. Ma, come capita qualche volta, chi conosce qualcosa proprio mentre non la può usare per se stesso, finisce per acquistare una castità che gli consente di penetrarne la natura più profonda. È questo uno degli autentici miracoli della gratuità, che soltanto i profeti conoscono veramente e ci sanno spiegare: «Più numerosi sono i figli dell’abbandonata che i figli della maritata» (Isaia 54,1). Moltiplicatevi. Nella terra dell’esilio risuonano le stesse prime parole dell’Eden (Gen 1,28), rivive la prima benedizione dell’Adam. Ogni volta che nasce un bambino la terra straniera diventa nuovo Eden, Abramo riode la promessa di una nuova terra e di una discendenza numerosa come le stelle del cielo. Isacco è ancora salvato dall’ariete. La grotta di Betlemme diventa il sepolcro vuoto di Gerusalemme.

È nella conclusione che questa prima lettera ai deportati raggiunge il suo culmine profetico e, dunque, il suo splendido paradosso: «Cercate il benessere [shalom] del paese in cui vi ho deportato, e pregate per esso YHWH, perché il vostro benessere sta nel suo benessere» (29,7). Si può chiedere di più a un profeta? Cosa c’è "oltre" una preghiera elevata a Dio per chiedere lo shalom di coloro che ti hanno occupato, deportato, strappato via di casa? «Amate i vostri nemici, benedite coloro che vi maledicono», leggeremo quasi sette secoli dopo nei vangeli. E forse non lo avremmo letto, o lo avremmo letto diversamente, se non ci fosse stato Geremia, se non ci fossero stati i profeti: «"La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?". Risposero: "Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia"» (Mt 16,13-14).
La fede di Israele, l’Alleanza e la Legge, si possono vivere anche in esilio: non c’è bisogno di aspettare il ritorno in patria, perché in Babilonia non manca nulla per vivere in pienezza. È questo ciò che scrive Geremia, ed è quanto sanno e devono dire i profeti veri. Che ci ricordano che la sola terra promessa è quella che stiamo abitando oggi; che anche il deserto può essere già terra promessa se lo facciamo fiorire edificando, lavorando, amando, generando figli e figlie. Nessun tempo presente deve essere ucciso nell’attesa del tempo futuro.

Il capitolo si chiude con un nuovo scontro tra Geremia e i falsi profeti, che però questa volta si trovano tra gli esiliati in Babilonia. Scopriamo – e non ci stupisce – che tra i profeti deportati ci sono anche alcuni esponenti dell’ideologia nazionalista, della stessa scuola di Anania (cap. 28). Geremia nella sua lettera non aveva usato parole tenere per essi: «Non vi traggano in errore i profeti che sono in mezzo a voi (...) perché falsamente profetizzano nel mio nome: io non li ho inviati» (29,8-9). Geremia li chiama per nome, forse li conosceva bene: Acab, Sedecìa e Semaià (29:21,24). Anche gli esili hanno i loro falsi profeti, che proliferano ancor più che in patria, perché la loro vendita di illusioni e consolazioni false trova ancora più "clienti" nel tempo della sofferenza e dell’angoscia.
E anche questa volta i profeti accusati e delegittimati da Geremia agiscono. Semaià fece arrivare «lettere a tutto il popolo di Gerusalemme e a Sofonia, figlio di Maasia, il sacerdote, e a tutti i sacerdoti» (29,25). La richiesta che Semaià fece a Sofonia, il sovraintendente del tempio, è molto chiara e diretta: «Perché non reprimi Geremia di Anatòt, che fa profezie fra di voi?» (29,26), equiparandolo così ai molti invasati, «pazzi forsennati che fanno i profeti» (29,26). Sofonia, evidentemente un uomo giusto, non ascoltò Semaià – anche nelle corruzioni generalizzate e in "strutture di peccato" si può incontrare una persona giusta. Mise a conoscenza della lettera Geremia, il quale rispose con una nuova lettera agli esuli: «Così dice YHWH: "Semaià ha parlato a voi come profeta, ma io non l’avevo mandato e vi ha fatto confidare nella menzogna"» (29,31).

I primi nemici dei veri profeti sono i falsi profeti, quelli in cattiva fede e quelli che in buona fede, ma divorati dall’ideologia, vedono nel vero profeta una grave minaccia per il popolo. Molti di coloro che tramavano contro Geremia erano sinceramente convinti di star combattendo un nemico della patria, un collaborazionista che voleva la rovina di Israele. È questa la terribile forza dell’ideologia: perseguitare e uccidere i profeti e farlo in nome del bene, della verità, della religione, di Dio. Ieri, e oggi. La Bibbia non ci dice che la storia riconosce i veri profeti e li ascolta. Anzi, ci dice il contrario, e ce li mostra, alla fine, sconfitti. Ma la lotta tenace e durissima tra Geremia e la falsa profezia, proprio perché è la storia di una sconfitta, ci ama insegnandoci la grammatica della malattia ideologica, che accompagna ogni esperienza religiosa e ideale (la falsa profezia è ideologica, e l’ideologia più potente è una forma di falsa profezia). Perché la falsa profezia ideologica fiorisce sullo stesso albero della profezia vera. Diversamente dalla zizzania, non è facile riconoscerla in mezzo al campo, e così intere comunità e popoli si sono nutriti, e continuano a nutrirsi, di erbaccia convinti di mangiare grano buonissimo. E, quasi sempre, i primi mangiatori di gramigna sono i falsi profeti, incantati dai propri incantesimi.

l.bruni@lumsa.it

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