sabato 24 ottobre 2015
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​Sono due millenni che il "discorso della montagna" prova a resistere agli attacchi di chi ha cercato e cerca di ridurlo ad altro, di ridicolizzarlo o trasformarlo in inutile esercizio consolatorio. Questa lotta alla semplice radicalità delle beatitudini è particolarmente evidente e forte per la beatitudine dei poveri. Un processo di ridimensionamento della sua portata che è iniziato molto presto, quando si cominciò a sottolineare troppo quel «di spirito» che troviamo nel Vangelo di Matteo, lasciando sempre più sullo sfondo i «poveri», grazie a esegesi sempre nuove e creative di quella beatitudine. Abbiamo così scritto e detto che «beati» non sono i poveri veri, ma chi vive il distacco spirituale dalla ricchezza, chi condivide i beni o chi li usa per il bene comune. Tutte cose vere e presenti anche nella Bibbia, ma che ci hanno allontanato dal semplicissimo e tremendo «beati i poveri».Non è facile capire e amare questa prima beatitudine. Il primo ostacolo, quasi insuperabile, è la condizione reale e concreta dei poveri veri: come possiamo chiamarli beati quando li vediamo deformati dalla miseria, abusati dai potenti, morire in mezzo al mare, spegnersi nelle nostre periferie? Quale felicità conoscono? Così accade che i maggiori critici di questa prima beatitudine siano quelli che spendono la loro vita per liberare i poveri dalla loro miseria. I più grandi amici dei poveri finiscono spesso per diventare i più grandi nemici di «beati i poveri».Se invece vogliamo provare a farci raggiungere, amare, cambiare da questa prima beatitudine, è necessario attraversare il suo terreno paradossale, scandaloso e persino manipolatorio – quanti ricchi hanno trovato nella beatitudine dei poveri un alibi spirituale per lasciarli beati nelle loro condizioni di deprivazione e di miseria, o auto-definendosi «poveri di spirito»?! Non dobbiamo commettere l’errore, comunissimo, di ridurre la portata di questa felicità folle per farla rientrare nelle nostre categorie, amputando, come nel mito, le gambe che fuoriescono dai nostri letti troppo corti. I paradossi del Vangelo, e della vita, non si risolvono riducendoli, ma "allargando il letto", formandoci categorie che siano alla loro "altezza".Un primo indizio per entrare dentro la prima beatitudine lo troviamo nel testo stesso: è il Regno dei cieli. La felicità dei poveri sta tutta nel vivere già nel Regno. Il Regno "è" loro oggi, non "sarà" domani. La beatitudine dei poveri non ha bisogno del non ancora.I poveri sono beati perché sono abitanti del Regno dei cieli. Basterebbe solo questa frase per capire, o almeno intuire, qualcosa del significato di questa beatitudine che, non a caso, è la prima. Tra i poveri chiamati beati c’erano gli scarti, i senza fissa dimora, coloro che avevano poco o niente per vivere. Ma anche i lebbrosi, le vedove (e quasi tutte le donne), gli orfani (e quasi tutti i bambini), persone che non a caso erano i principali amici e compagni di Gesù durante la sua vita. Poveri erano gran parte dei suoi discepoli, che lo avevano incontrato sulle vie della Palestina, gente comune, come noi, che si erano messi a camminare dietro e insieme a lui. Erano già poveri o lo diventarono incontrando un altro regno, seguendo un’altra felicità. Nel dire «beati i poveri» Gesù parlava ai suoi, e parla ancora ai suoi.Soltanto i poveri vivono nel Regno dei cieli, quel Regno abitato dagli uomini e dalle donne delle beatitudini: miti, puri, perseguitati, misericordiosi, affamati di giustizia, afflitti, poveri. Un Regno diverso da quelli che governano le nostre società, ma che non ha mai smesso di stare in mezzo a noi. Un Regno dove si conosce la provvidenza, che solo i poveri sperimentano: la provvidenza è per Lucia, non per Don Rodrigo. Le feste più belle sono le feste di poveri: forse sulla terra non ci sono cose più gioiose di matrimoni e nascite celebrate da poveri in mezzo ai poveri. I bambini amano le feste e i regali perché – e fino a quando – sono poveri. I ricchi non entrano in questo Regno, non per punizione, ma semplicemente perché il Regno non lo capiscono, non lo vedono, non lo desiderano. Sono interessati ai regni della terra non a quello dei cieli. Se il Regno dei cieli è dei poveri, allora non è dei ricchi, a meno che non diventino poveri lasciando i loro idoli. Il Regno dei cieli è il luogo dei rapporti non-predatori con le cose e con le persone, dove la legge aurea è la gratuità.
Qualcuno ha tentato nel corso della storia di prendere sul serio questa beatitudine. Uno di questi è Francesco d’Assisi, colui che più di tutti ci ha svelato cosa significhi "beati i poveri". Francesco è questa beatitudine incarnata, quella parola fatta carne. Quella di Francesco non è l’unica via per entrare da poveri nel Regno, ma dopo il "poverello" (pauperculus) non è più possibile fare a meno della sua povertà per capire veramente quella delle beatitudini. Se non fosse così, i carismi sarebbero solo esperienze private, inutili all’umanità di tutti e di sempre. Francesco è il grande ed eterno maestro della beatitudine della povertà, della gioia diversa di un altro Regno. Tutte le volte che qualcuno risceglie di diventare povero incontra Francesco, anche se non lo riconosce (lui incontrò Gesù nel lebbroso e non lo sapeva, tutti i poveri per scelta incontrano anche Francesco, anche se non lo sanno).Non tutti i cristiani e non tutti gli uomini scelgono «madonna povertà», ma quella tipica gioia della povertà vera e non ideologica la conoscono solo Francesco e quelli e quelle come lui. Quella fraternità cosmica, quel cantico delle creature, quella libertà assoluta, quei baci alla bocca e alle mani dei lebbrosi, la perfetta letizia, possono nascere solo da chi è dentro quella beatitudine e vive in un Regno diverso. Non è obbligatorio essere poveri, neanche nella Chiesa: i ricchi non sono esclusi dai sacramenti, sono sovente lodati e ringraziati anche dagli stessi poveri. Sono sempre stati parte, legittima e anche importante, delle comunità cristiane. Vivono più a lungo, con una migliore istruzione e salute, riscuotono successi e applausi. Ma non sono abitanti di quel Regno, non conoscono quei cieli, non vedono quelle stelle lontane e splendide. C’è anche questa giustizia nel mondo, ed è grande.Ma c’è di più. La letizia di Francesco nasce da una povertà scelta, e la sua beatitudine è evidente a chi la sceglie e a chi la guarda. Ma tra i poveri che seguivano Gesù non c’erano solo quelli diventati poveri per scelta. C’erano tanti poveri-e-basta, persone che la povertà non l’avevano scelta, ma dentro la quale si erano ritrovati fin dalla nascita, o che erano diventati tali in seguito a una malattia o a una sventura. Tra quei poveri chiamati beati c’erano alcuni "Francesco", ma c’erano anche molti "Giobbe", cioè poveri non per scelta, ma solo per destino o per disgrazia. La forza sbalorditiva della prima beatitudine sta nel suo rivolgersi ai poveri-Francesco e ai poveri-Giobbe. Sono chiamati entrambi abitanti di quel Regno diverso. E se il Regno è loro, lì non sono sudditi ma sovrani. Ma mentre è relativamente semplice cogliere la beatitudine di Francesco, chiamare «beati» i tanti Giobbe della terra e della storia è operazione molto difficile, dolorosa, che sfiora l’assurdo, abita il paradosso. Ma se non includiamo anche Giobbe in quel «beati i poveri», ne riduciamo troppo la portata e la trasformiamo in ideologia. Dobbiamo riuscire a capirla e ripeterla nella letizia di Assisi, ma anche accanto ai tanti "mucchi di letame" dove vivono e dimorano i poveri-Giobbe. La beatitudine deve essere vera anche per chi la povertà non l’ha scelta, ma l’ha semplicemente subita. Il Regno dei cieli è, deve essere, il Regno di Francesco e quello di Giobbe, insieme. Poveri-per-scelta accanto a poveri-e-basta, tutti fratelli, tutti beati. Non è il sentirci felici che ci fa beati: la beatitudine nasce dalla condizione oggettiva dell’essere povero. Non è un sentimento: è un essere, un abitare. Non c’è amicizia più vera e grande di quella tra poveri, tra i poveri-Francesco e i poveri-Giobbe. Per incontrarla basta andare ancora in qualche missione in Africa, ma anche a Termini o all’Ostiense di Roma, dove poveri diversi vivono, soffrono, si abbracciano e "danzano" assieme, diversi e uguali, cittadini dello stesso Regno.
Il libro di Giobbe ci aveva detto, a un costo altissimo, che anche il povero può essere giusto e innocente – non dimentichiamo che in quel mondo, e nel nostro, la ricchezza era segno di benedizione e la povertà di maledizione. Il Vangelo incontra Giobbe e tutti i poveri e annuncia loro qualcosa di nuovo e di immenso: "Non siete solo innocenti: siete anche beati". I letamai restano, ma da quel giorno è arrivata anche la beatitudine, che ha riscattato una storia infinita di poveri condannati dalle religioni dei ricchi di ieri e di oggi.La beatitudine della povertà può arrivare tardi, molto tardi nella vita delle persone giuste: a volte è l’ultima beatitudine. Per intravvedere un altro regno occorre camminare molto, e se la vita ci fa nascere e vivere nella ricchezza e nell’abbondanza di beni e di talenti, occorrono molta fatica, molte prove e molto dolore-amore per riuscire a raggiungere la beatitudine della povertà. Spesso serve tutta la vita, e a volte neanche basta, per tornare finalmente poveri, figli e "nudi" come siamo venuti al mondo, e recitare alla fine la preghiera più grande: «Nudo uscii dal grembo di mia madre, e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore!» (Giobbe 1,20-21). Poveri si può tornare, si può ritornare alla povertà. Le porte del Regno sono sempre aperte e ci attendono.Credere e sperare che la prima beatitudine è anche per quei poveri che non hanno ricevuto un carisma per capire la felicità della povertà scelta, è un messaggio di grande speranza. Pochi possono diventare poveri-Francesco. Ma tutti possiamo diventare poveri-Giobbe. Allora tutti possiamo abitare il Regno, magari solo negli ultimi anni, mesi, giorni della nostra vita. E quando nell’ultima ora torneremo finalmente poveri, il salario del Regno sarà anche per noi. «Beati voi poveri, perché vostro è il Regno dei cieli».
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"Rigenerazioni" è stato un percorso inatteso, imprevisto, sorprendente, per me splendido. Dalle virtù e non-virtù delle imprese siamo arrivati alle beatitudini, attraversando parole dimenticate e umiliate. Da domenica prossima riprendo, con nuovo coraggio (del Direttore e mio), il commento di un altro grande libro: il Qoelhet, attendendo nuove sorprese e nuovi cieli. Conto anche questa volta sulla compagnia e sull’aiuto dei lettori, che continuano a creare con me questi appuntamenti domenicali. E, come e più di sempre, grazie a chi mi ha seguito fin qua.L.bruni@lumsa.it
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