Lucidità e coraggio per ricentrare sulla persona il tema dell'aborto
venerdì 1 luglio 2022

Sarebbe stupido da un lato stracciarsi le vesti, dall’altro cantare vittoria di fronte alla sentenza della Suprema Corte degli Usa in materia di aborto. Chi si straccia le vesti stenta a comprendere che la morte non può mai, dico mai, essere un diritto, perché i diritti si generano dalla vita. Chi canta vittoria non comprende aspetti della questione, che devono comunque interpellare il legislatore laico.

Ecco perché, come è stato detto subito su queste pagine e come viene argomentato da più parti in campo cattolico italiano, vanno aperti dialogo e dibattito, a partire da alcune prospettive fondamentali, che interpellano la legge 194 (22 maggio 1978) e ne propongono una attenta verifica.

C’è una sorta di 'sapienza' umanistica anche dietro quella legge che cerca di contemperare accoglienza e tutela della vita nascente e depenalizzazione della pratica abortiva, la stessa che sta a base della nostra amata Costituzione: e si tratta del tema della persona, che per noi non corrisponde né al soggetto, né all’individuo così come la modernità liberistica li pensa.

La gerarchia cattolica e la maggior parte dei militanti (associazioni, gruppi, movimenti…) a suo tempo hanno ostacolato la legge stessa, come quella sul divorzio, rilevando in esse uno scricchiolio non solo della cristianità ma anche dei valori pure laici che da essa promanano. Certo, i credenti non demorderanno mai dall’affermare che l’uomo non è il Signore della vita e della morte. E nel dare valore pieno a ogni vita continueranno a trovare interlocutori e compagni di strada e d’impegno anche di altra cultura, come a suo tempo Norberto Bobbio.

Tuttavia, oggi possiamo ulteriormente comprendere che il diritto che sinora si è affermato, attraverso questa o analoghe legislazioni, non è stato il 'diritto all’aborto', ma il diritto alla tutela della salute, perché, se di vita si tratta, non è in gioco solo quella del nascituro, ma anche quella della donna, che non può essere costretta a ricorrere a pratiche clandestine, che ne mettano a rischio la sopravvivenza. In ultima analisi si è almeno stabilito che non si possono criminalizzare (col carcere o simili sanzioni) le donne che, non sappiamo con quanti margini di consapevolezza e libertà autentica, decidano di porre fine alla loro gravidanza.

Chi crede sa bene che non ogni peccato è reato. Se così fosse, saremmo tutti in carcere, proprio perché siamo tutti peccatori. In questa prospettiva, una legge che non riconosca il diritto alla morte (e vale sia nel caso dell’aborto sia in quello dell’eutanasia), ma depenalizzi, ovvero non colpevolizzi penalmente, chi compie o aiuta a compiere tali deprecabili gesti, dal punto di vista della morale cristiana, non può essere semplicemente e ideologicamente avversata.

Ma appunto si tratta di 'legge', ovvero del potere legislativo, e non di quello giudiziario, chiamato a prendersi cura di tali drammatiche situazioni. E qui, nella situazione degli Usa, entrano in gioco gli Stati e i Parlamenti. Non possono stare a guardare e aspettare che le Corti si esprimano o comunque delegare a esse su tematiche così decisive e pregnanti, a meno che non intendano ridurre il loro ambito a quello meramente economico.

«Morte e Vita si sono affrontate in un prodigioso duello. Il Signore della vita era morto, ma ora, vivo, trionfa». Così cantiamo e crediamo a Pasqua, nella convinzione che non ci si possa arrendere nel tentativo di affermare, ad esempio, che l’aborto non è un diritto, ma un dramma e così l’eutanasia. Ma, dentro questo dramma, non possiamo neppure aggiungere morte a morte: a quella del nascituro quella della donna. Infatti, la mia esperienza non solo teologica, ma pastorale, in ascolto delle donne che hanno preso la decisione di abortire, mi dice che insieme all’embrione è morta parte di loro stesse.

E al tempo stesso ci sono persone, tra le quali una che mi è molto cara, che, in presenza di una gravidanza indesiderata, che avrebbe compromesso la propria carriera universitaria e il proprio successo professionale, non hanno avuto dubbi. La vita viene prima del successo, del profitto, dell’economia e della finanza: di fronte alla testimonianza di una donna, che non è neppure sposata in chiesa, posso solo chinare il capo, così come al cospetto di tante altre persone che con coraggio hanno anteposto la vita del nascituro alla propria. E tuttavia, si tratta di questioni in cui entra in gioco la nostra 'coscienza'.

Inutile sbandierare la dottrina morale cattolica, se essa non penetra nelle persone, se rimane lontana e lettera morta. Se le coscienze di tutti fossero adeguatamente formate alla cultura della vita, la presenza o meno di una legge che depenalizzi l’aborto, risulterebbe irrilevante. Ma di fronte a quanti non hanno nel loro cuore e nella loro mente radicata una profonda cultura della vita, non possiamo che chiedere allo Stato laico di esprimersi, perché non si moltiplichi la morte.

Con l’ulteriore consapevolezza derivata dalla necessità di garantire sempre e comunque, insieme al diritto alla salute delle donne, quello all’obiezione di coscienza degli operatori sanitari, come appunto accade nel nostro Paese, che, come patria del diritto e del pensiero credente, forse ha ancora qualcosa da insegnare al mondo. Dirò di più: non è un problema dei vescovi e dei dicasteri pontifici, che pure si sono pronunziati a riguardo nell’esercizio delle loro competenze, ma dei laici, più o meno credenti, ma comunque impegnati nelle istituzioni, in quanto dovrebbero essere capaci di mettere in campo una visione antropologica, politica e teologica, che si ispiri sempre e comunque alla cultura della vita. Il Papa e i vescovi, col contributo dei teologi, sono chiamati a dirci cosa è peccato dove si annida il male e stanno assolvendo il loro compito con profondo senso pastorale, ai laici politici il compito di individuare i reati e formulare leggi a servizio della persona, che, come insegnava il beato Antonio Rosmini, è «il diritto sussistente».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI