venerdì 23 giugno 2023
La triste storia di Hasib: già collaboratore degli americani a Kabul, fuggito in Brasile, poi arrivato dal Messico e bloccato in Texas dalle leggi di Biden. Ma i repubblicani “usano” quelli come lui
Il confine in Texas fra Stati Uniti e Messico, presidiato militarmente per evitare gli ingressi

Il confine in Texas fra Stati Uniti e Messico, presidiato militarmente per evitare gli ingressi - Ansa

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La chiamano la Ellis Island del Sud. Come l’isola di fronte a New York, la chiesa del Sacro Cuore di El Paso è diventato un porto sicuro per migliaia di immigrati che fuggono dalla miseria e dalla violenza per cercare un futuro migliore negli Stati Uniti. Ma c’è una grossa differenza rispetto agli italiani, ai polacchi e agli irlandesi che approdavano nei pressi della Statua della Libertà all’inizio del secolo scorso. La parrocchia e il centro d’accoglienza di questa diocesi del sud del Texas non sono istituzioni governative. Spesso, quindi, non hanno risposte certe per gli immigrati che cercano di muoversi nel labirinto delle nuove regole dell’Amministrazione Biden e il cui volto è cambiato negli ultimi mesi.

Accampati sul marciapiedi davanti alla chiesa in attesa di un pasto caldo, vestiti puliti o un letto — qui o a Houston o ovunque la rete della Caritas e del volontariato cattolico li riesca a far arrivare —, infatti, ora non ci sono solo centramericani e sudamericani. Oltre allo spagnolo, si sente parlare ucraino, cinese, pachistano e persino qualche lingua in uso in Afghanistan. La parte finale del viaggio è stata la stessa per tutti e li ha condotti al confine fra Messico e Stati Uniti, dove si sono consegnati alle autorità, a volte dopo aver preso un appuntamento con un agente tramite una app che concede solo mille colloqui d’ingresso al giorno, o dove più spesso hanno scavalcato un muro di cinta o guadato un fiume: gli ultimi ostacoli di un’odissea durata mesi. Come sono arrivati alla frontiera invece è una storia diversa per ciascuno.

Gli afghani sono i più silenziosi. Ce ne sono una manciata: quattro uomini soli e una giovane coppia. Nessun bambino, per ora, è arrivato alla fine di un viaggio drammatico, la cui durezza è difficile da immaginare. Hasib Popalzai la racconta a grandi linee in un inglese stentato. Al contrario di nicaraguensi, colombiani o venezuelani, il suo viaggio è iniziato in aereo. Hasib, che è fuggito da Kabul perché aveva lavorato per un contractor degli Stati Uniti, ha potuto risparmiare abbastanza per un volo per Teheran, e da lì per il Brasile, che dal settembre 2021 concede con una certa facilità un visto di due anni per ragioni umanitarie. È ormai una delle pochissime vie d'uscita rimaste per gli afghani in fuga dal regime talebano. « A San Paolo sono rimasto accampato due settimane in aeroporto perché non c’era posto nei rifugi — racconta Hasib—. Ho capito che mi sarei fatto una vita in Brasile, allora ho detto sì a un contrabbandiere che mi ha proposto di andare negli Stati Uniti».

Questo era quattro mesi fa. Da allora Hasib e tre connazionali conosciuti all’aeroporto hanno attraversato 11 Paesi, passando per una delle giungle più fitte al mondo, la regione senza legge che separa Colombia e Panama, il famigerato Darién Gap. Più di 3.600 afghani hanno percorso la stessa pericolosa rotta dall'inizio del 2022, secondo le stime di Panama. Molti non sopravvivono. Più di 4.000 erano entrati in Brasile con visti umanitari solo nel 2021. Hasib aveva provato ad arrivare negli Usa in modo meno rischioso. Da Kabul aveva fatto domanda per un Siv, Special Immigrant Visa, una categoria di visti per i cittadini stranieri che hanno lavorato con gli Stati Uniti in Iraq e Afghanistan. Dal ritorno dei taleban al potere, seguito dal caotico ritiro dei soldati americani alla fine dell’agosto 2021, più di 150mila afghani ne hanno richiesto uno. Di questi, oltre 90mila non hanno ancora ottenuto risposta. «Non potevo aspettare. Non sarei sopravvissuto», dice Habib, che non è nemmeno sicuro di avere diritto al Siv, perché non ha lavorato direttamente per il governo di Washington.

Il 26enne smette di raccontare, ed è il parroco del Sacro Cuore a finire la storia, comune a tutti gli esuli soccorsi. «Di solito passano nelle mani di vari coyotes, trafficanti messicani, ciascuno chiede fra gli 80 e i 200 dollari e li accompagna solo per un paio di giorni, ma scappa non appena vede un posto di blocco o un poliziotto — spiega padre Rafael Garcia —. Molti migranti finiscono in prigione lungo il cammino, o passano settimane in un centro di detenzione in Ecuadorin Colombia o in Messico, se riescono ad attraversare il Darién”.

Meno di 11.000 persone hanno attraversato la giungla ogni anno, in media, dal 2010 al 2020. Ma quest’anno il governo panamense prevede che faranno il viaggio ben 400.000, quasi tutti diretti negli Stati Uniti. Se sopravvivono al fango, alle inondazioni improvvise, alla fatica e alla fame, vengono assaltati da gruppi di banditi, i quali sanno che i migranti hanno con sé contanti e tolgono loro tutto. Così che, quando emergono a Panama, sono affamati, assetati, spesso feriti, e non hanno più nulla. «Panama è forse il luogo più accogliente in cui passano — continua Garcia — perché li sistema per qualche giorno in accampamenti per dare loro cibo, acqua, vestiti e assistenza medica».

Da qui ripartono in autobus, spesso finanziato da volontari, per il Costa Rica, da dove ricominciano il cammino a piedi o, a volte, in barca lungo la costa, verso il Messico. In mare si rischia meno di essere derubati, ma le imbarcazioni di fortuna sono strapiene e in balia delle onde. Hasib si reinserisce nella conversazione per dire che, arrivato alla frontiera americana, non si è nascosto: si è presentato alle autorità, senza sapere che cosa lo attendeva, se avrebbero potuto fare domanda di visto o di asilo. «Gli agenti non mi hanno detto niente. Mi hanno portato in un centro di detenzione e due giorni dopo mi hanno rilasciato con un foglio per comparire in tribunale ad agosto».

Il documento non parla di asilo ma di un’udienza per ottenere un “permesso umanitario” di due o quattro anni che non porta automaticamente alla residenza permanente. Fino a quel giorno, il giovane non ha il diritto di lavorare. Ma Hasib è relativamente fortunato: il suo appuntamento davanti ai giudici è fra solo due mesi. Per molti l’attesa è ben più lunga. Il Dipartimento di Stato Usa sostiene di aver cercato di accelerare l’elaborazione dei visti e delle domande di asilo o permessi per «i coraggiosi afghani che sono stati fianco a fianco con gli Stati Uniti negli ultimi due decenni». Ma il sistema d’immigrazione statunitense è al limite delle capacità e i tempi di disbrigo delle pratiche si sono dilatati a dismisura.

E nel destino di chi arriva alle porte del Sacro Cuore gioca anche la politica, sempre più interessata a utilizzare l’immigrazione per scopi elettorali. Se infatti da un lato Joe Biden è accusato dall’opposizione repubblicana di aver abbandonato gli afghani al loro destino, ritirandosi in modo disastroso, dall’altro lo stesso partito di Trump gli imputa di non saper gestire la “crisi” al confine, permettendo troppi arrivi. In realtà, il presidente democratico ha inasprito le condizioni per chiedere asilo, attirandosi anche le critiche dei gruppi di difesa degli immigrati e persino di molti imprenditori a corto di manodopera.

Intanto, i volontari di El Paso hanno notato che gli immigrati sono spesso avvicinati da persone che offrono loro un passaggio gratis a New York o a Los Angeles, promettendo un posto dove dormire e un lavoro. Sono inviati dal governatore del Texas, Greg Abbott, e persino da quello della Florida, il candidato alla presidenza Ron De-Santis, che da mesi riempiono autobus e persino jet privati di immigrati per portarli in città a maggioranza democratica. Qui vengono lasciati davanti a una chiesa o agli uffici del sindaco locale.

È una prassi che il vescovo di El Paso, Mark Seitz, descrive con parole chiare. «Senza entrare nei dettagli della politica, sembra chiaro che questi esseri umani, che hanno perso tutto, sono usati non per preoccupazioni umanitarie, ma nel tentativo di ottenere un guadagno politico. Non è moralmente accettabile», afferma. Hasib non sa chi sia DeSantis, né Abbott, ma crede ai volontari che gli dicono di non salire su un bus se non è accompagnato da un rappresentante della Caritas. «Non andrò da nessuna parte — dice —, solo dal giudice, anche se devo dormire sul marciapiedi per due mesi».​

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