sabato 27 gennaio 2018
I moderati stretti tra principalisti, pasdaran e ultraradicali. La classe dirigente, divisa in gruppi contrapposti, è incapace di offrire risposte coerenti
Le proteste all'università di Teheran nella foto Ansa datata 30 dicembre 2017

Le proteste all'università di Teheran nella foto Ansa datata 30 dicembre 2017

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“Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo”. Ci perdonerà Tolstoj se gli rubiamo il suo celebre incipit, ma questo si adatta perfettamente alla situazione attuale delle diverse fazioni interne al nizam, come viene chiamato il sistema di potere della Repubblica islamica dell’Iran. Le proteste di piazza, al solito facilmente fraintese in Occidente, testimoniano di una difficoltà che il regime ha nel gestire i costi ormai insostenibili della sovra esposizione strategica all’estero, per quanto coronata da grandi successi politicomilitari nel Levante, e delle storture economiche e politiche interne. Il problema è che la classe dirigente, da troppo tempo divisa in gruppi contrapposti, pur comprendendo la necessità di intervenire per evitare l’avvitamento a spirale delle contraddizioni economiche, è incapace di offrire delle risposte coerenti dato che ogni fazione persegue obiettivi e difende interessi antitetici. Tentare delle semplificazioni è sempre estremamente scivoloso, data la complessità del potere.

Ma alcuni elementi sono a ogni modo chiari: esiste un disagio di fondo nella società iraniana che non è solo legato alla mancanza di spazi politici democratici, ma sempre più alle crescenti ineguaglianze che attraversano l’Iran, e che contrappongono ceti sociali diversi e le province del Paese. In pratica una crescente “ingiustizia sociale” che suona scandalosa in un sistema nato da una rivoluzione che quelle discrepanze voleva abbattere per realizzare la giustizia sociale predicata dall’islam. Il clero e i conservatori tradizionali – definiti spesso come “principalisti” – sono fortemente sensibili a questo argomento. Non a caso essi sono stati uno dei bersagli delle proteste, dato che impersonificano la doppiezza e la falsità del sistema. Difensori a parole dei mostazafin, ossia gli strati più umili, hanno creato con il tempo un sistema di privilegi che li ha allontanati e resi invisi al popolo.

Le loro “linee rosse” politiche sono la difesa della retorica sociale e culturale del regime (antisionismo, velo per le donne, aderenza ai precetti islamici), il mantenimento del vigente sistema di privilegi economici, della scarsa apertura al mercato, dei sussidi e del marcato clientelismo che arricchisce le potenti fondazioni religiose e permette la sopravvivenza di milioni di famiglie povere e di sotto-occupati. Sono quindi estremamente critici con il governo n qualche modo collegato ai conservatori, vi è l’universo delle forze di sicurezza e dei pasdaran, le potentissime guardie rivoluzionarie. Per queste ultime, “l’eccezionalità” dell’Iran e l’ostilità internazionale sono alla base della loro tracimazione in tutti i gangli di potere.

Come rivelato da Rouhani, il loro bilancio continua a crescere, così come i loro interessi economici e finanziari. I successi geostrategici nel Levante, contro le forze sunnite attive in Iraq, Siria e Yemen, sponsorizzate dall’arci-nemico di Teheran, l’Arabia Saudita, li rendono ancora più aggressivi sul piano interno. Schierati formalmente sulla difesa dei valori morali e religiosi della rivoluzione, a loro interessa in realtà rafforzare il proprio potere, anche a scapito del clero tradizionale. Rispetto a questi ultimi mostrano anche una minore disponibilità al compromesso con le altre fazioni politiche e hanno la mano pesante contro chi critica dall’interno. La Guida suprema, l’ayatollah Khamenei, sembra l’unico che può tenerne le redini, ma in molti temono un loro ulteriore rafforzamento, a svantaggio dei riformisti e moderati, dopo la sua morte. I privilegi delle loro società e la loro autonomia dall’autorità centrale in tema di questioni strategiche sono inintaccabili dal presidente e dal suo governo.

A rendere più confuso il quadro, vi è però anche il gruppo – a volte definito degli ultraradicali – legato all’ex presidente Ahmadinejad, di cui si vocifera l’arresto proprio per il suo ruolo presunto nelle proteste. Con qualche forzatura potremmo paragonarli ai populisti di destra europei: ostili al liberalismo politico e alle dottrine economiche liberiste, cavalcano il risentimento dei ceti sociali più svantaggiati. Per anni, Ahmadinejad è stato il pupillo della Guida suprema e degli stessi pasdaran, ma ha finito poi per rappresentare istanze di protesta e di sfida al potere del clero impegnato politicamente.

Qui, più che le differenze politiche e ideologiche, hanno contato anche il tatticismo estremo della politica iraniana e le ambizioni e rivalità personali. Per questo gruppo, cavalcare il risentimento e le proteste significa mantenersi dei margini di manovra e stimolare un sostegno popolare che – in particolare nelle campagne e fra i poveri – rimane considerevole. Le loro ricette, basate sulla distribuzione a pioggia delle rendite petrolifere, sono tuttavia impraticabili e hanno contribuito al disastro attuale. Oltretutto, soffiare sulla rabbia popolare è sempre un gioco pericoloso dagli esiti imprevedibili.

Nel mezzo, il governo Rouhani, che in qualche modo rappresenta i moderali e quel che resta del movimento riformista, cerca di portare avanti la propria agenda: riduzione delle storture economiche e liberalizzazione prudente della società. I risultati, finora, sono scoraggianti: il presidente ha margini di manovra molto limitati, resi ancor più fragili dall’ostilità regionale e internazionale. Ha puntato forte sui dividendi finanziari dell’accordo nucleare e ha perso la scommessa. Non riuscendo a intaccare i privilegi delle fondazioni religiose e dei pasdaran, non ha altra scelta che fare cassa disboscando la giungla dei sussidi. Imporre la disciplina finanziaria a un Paese profondamente scontento, che esce da anni di recessione, alta inflazione e con milioni di giovani che ogni anno si affacciano sul mondo del lavoro non è certo esercizio popolare.

Tanto più che i suoi sostenitori vengono associati – in modo rozzo ma con anche qualche buon motivo – ai ceti urbani più abbienti. La gauche caviar, la sinistra al caviale, come si dice, che si occupa di libertà e società civile perché non ha problemi di companatico, secondo la vulgata populista. I l risultato finale di queste contraddizioni è una politica claudicante, con continui stop-and-go e aggiustamenti. Incapace di scegliere una via di cambiamento e riforma, quale che essa sia, il nizam, il sistema di fatto continua ad alimentare rabbia e frustrazione. Rendendo sempre più inevitabile lo strumento della repressione e della minaccia al proprio interno.

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