martedì 5 agosto 2014
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A rompere lo scandaloso silenzio e la colpevole indifferenza dei governi e delle agenzie internazionali di fronte a centinaia di migliaia di cristiani perseguitati, depredati e costretti a lasciare le loro case in Medio Oriente, è stato sorprendentemente un Paese come la Francia che si fa vanto della propria 'laicità'. Il governo di Parigi non si è limitato a una generica condanna (sull’esempio di quelle che l’Onu emette con impressionante routine su qualsiasi funesto evento accada nel mondo, ma non – guarda caso – sulle violenze delle ultime settimane in Iraq), bensì ha avanzato una proposta concreta, dichiarando la propria disponibilità a concedere asilo alle famiglie cristiane costrette a fuggire dalle milizie jihadiste dell’autoproclamato Califfato islamico. Spalancare le porte a chi ha visto la morte in faccia e ha perso tutto è uno dei principi fondanti, anche se spesso disattesi, dell’Europa che vuole essere modello di civiltà.  Eppure, diciamolo con grande franchezza, la disponibilità accoglienza non basta. Anzi, potrebbe diventare una sorta di alibi per tacitare il disagio e lo sdegno che inevitabilmente proviamo per i nostri fratelli nella fede divenuti oggetto di una insensata barbarie. Al momento hanno bisogno di qualcuno che dia loro rifugio, ma a ben vedere hanno bisogno soprattutto di qualcuno che li aiuti a rimanere nella loro terra. Ce lo ha ricordato pochi giorni fa il patriarca della Chiesa caldea, monsignor Louis Sako, che dopo aver ringraziato per la loro generosità i Paesi disponibili ad accogliere le famiglie cristiane irachene ha aggiunto che «va ricercata una soluzione politica per permetterci di restare e vivere in sicurezza nel nostro Paese». Quello che infatti è in gioco in questo tragico momento è la sopravvivenza di una delle più antiche comunità cristiane dove si prega in aramaico, la lingua di Gesù. Negli ultimi dieci anni c’è stata una diaspora forzata che ha ridotto la sua consistenza di oltre la metà rispetto al 2003 e ha ingrossato le file degli esuli che nel secolo scorso avevano preso la strada per l’Occidente. È più facile trovare un cristiano iracheno a Detroit o a Stoccolma che non a Baghdad.  La lunga scia di sangue che ha segnato il Paese dei due fiumi dopo la fine della dittatura di Saddam Hussein non ha risparmiato la Chiesa, presa in mezzo alle violenze tra sciiti e sunniti e attaccata dai gruppi fondamentalisti. Ma oggi, con l’avanzata impetuosa dell’esercito dell’Isis che controlla vaste zone della Siria e dell’Iraq, il terrorismo islamista ha subìto una mutazione genetica. Se finora la 'guerra santa' era diretta soprattutto contro l’America e i 'crociati' dell’Occidente (e i cristiani arabi ne facevano le spese in quanto venivano considerati loro alleati), oggi bersaglio principale di chi vuol instaurare il Califfato è il 'rinnegato sciita' e il cristiano marchiato con la 'N' di nazareno. L’obiettivo dei nuovi fanatici è la distruzione sistematica delle minoranze religiose, cancellando ogni traccia della loro presenza, recidendo ogni legame con la terra d’origine. Un legame che per la Chiesa caldea dura da duemila anni ed è più antico di quello con l’islam. È una guerra spietata quella condotta dalle armate dell’Isis, un terrorismo di massa peggiore delle cellule di al-Qaeda. Ma l’Occidente sembra non rendersene conto. I registi dell’opinione pubblica delle nostre stanche democrazie continuano a pensare che quanto sta accadendo ai cristiani del Medio Oriente sia tutto sommato una questione interna alla Chiesa. In particolare l’Europa si mostra «distratta e indifferente, cieca e muta», incapace di comprendere che è in corso «un attacco alle fondamenta della civiltà e della dignità umana», come ha notato la presidenza della Conferenza episcopale italiana, invitando alla preghiera e alla riflessione per il 15 agosto. Quando si capirà che non si tratta soltanto di difendere la libertà di professare la propria fede in regioni lontane, ma è in gioco il nostro stesso futuro, il destino dell’Europa – e del mondo – che stiamo faticosamente costruendo?
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