Libertà-vita, sentenziato un mortale capovolgimento
mercoledì 3 luglio 2019

Nell’ospedale di Reims è ripreso, dopo un mese e mezzo di interruzione, il protocollo che prevede la sedazione profonda e la sospensione di idratazione e nutrizione del tetraplegico francese Vincent Lambert in stato di «coscienza minima» (veglia non responsiva). Non è in terapia intensiva o subintensiva, né in stadio terminale di malattia, e neppure manifesta dolore incoercibile: è solo assistito clinicamente per l’assunzione di acqua, sali minerali, vitamine e sostanze alimentari metabolicamente utili, di cui abbisogna per vivere come ognuno di noi. Perché Vincent è uno di noi, anche se non è in grado di comunicare con noi. Egli è vivo non meno di quanto lo sia chi scrive e chi legge queste righe.

La repentina iniziativa del medico che lo ha in cura è stata resa possibile dalla recente sentenza della Cassazione francese che ha ribaltato il verdetto della Corte d’Appello, la quale aveva richiesto di non sospendere idratazione e alimentazione a Lambert, in attesa di un pronunciamento del Comitato Onu sui diritti delle persone con disabilità che sta esaminando il caso in base alla Convenzione internazionale, ratificata anche dalla Francia. Una sentenza, quella della Corte Suprema, che si fonda sul convincimento dei togati francesi che la «libertà personale» (liberté individuelle) del malato Vincent non sarebbe violata dall’interruzione dei sostegni fisiologici vitali, le cure essenziali privato delle quali egli va incontro a morte certa.

Ci si può legittimamente chiedere – con sano realismo e robusta ragionevolezza – da dove origini una tale argomentazione, la cui evidenza logica, antropologica e giuridica è tutt’altro che palese. Essa sembra nascere dal ribaltamento del binomio 'vita-libertà' in 'libertà-vita' (l’ordine dei termini pone l’accento sul bene fondativo rispetto a quello fondato). Un binomio che sta al cuore delle grandi questioni dell’etica, del diritto e della politica della vita umana, che si riaprono continuamente come una ferita chirurgica deiscente. È il rapporto tra queste due categorie a venire chiamato in causa inevitabilmente. Sfrondate tutte le argomentazioni ancillari in merito all’oggetto, al fine e alle circostanze e conseguenze dell’azione, si cade sempre qui: l’espressione della libertà personale può arrivare fino a sopprimere la continuazione dell’esistenza terrena propria e altrui? Oppure il rispetto e la tutela della vita personale quale bene fondamentale dell’individuo e della società esige dei limiti all’esercizio della libertà quando esso risulta lesivo o soppressivo della vita del soggetto stesso o, a maggior forza, quella di altri soggetti?

Domande di questo tenore e accento non possono trovare risposta dirimente e generale disquisendo attorno a un caso individuale, per quanto molto istruttivo. Tuttavia, alcune considerazioni possono provocare e forse aiutare una riflessione realistica e ragionevole (ossia, non estratta né ideologica), di valore per tutti.

In assenza di esplicite volontà espresse contestualmente o anticipatamente dal signor Lambert circa una desistenza curativa mortale, e nell’impossibilità di ricostruire un suo pensiero (anche generico) su di essa, ci si può legittimamente chiedere a quale «libertà» si riferiscono i giudici nel dichiararla inviolata dall’interruzione dei supporti vitali. Possiamo solo supporre che essi alludano alla libertà come apertura antropologica originaria e speciale dell’uomo all’essere. Se così deve interpretarsi la sentenza secondo cui «il rifiuto dello Stato di ordinare il mantenimento delle cure vitali fornite a Lambert non costituisce una violazione della libertà individuale», essa ribalta il legame asimmetrico tra vita e libertà, il cui centro di gravità si sposta, appunto, dalla vita alla libertà. Ma come potrebbe sussistere e venire tutelata la libertà della persona quando essa viene privata intenzionalmente della vita e quest’ultima non è più protetta giuridicamente in ogni fase e circostanza dell’esistenza come bene della persona e della società?

Non sfuggono le implicazioni di una rottura giuridica dell’ordine intrinseco tra vita e libertà, non solo per la normativa francese, ma anche per quella di cui si sta discutendo nel nostro Paese a seguito della sentenza della Corte Costituzionale. Come ha riconosciuto lo stesso procuratore generale François Molins, «consacrare il diritto alla vita come valore supremo avrebbe come effetto quello di rimettere in causa la legge Lionetti». Ovvero la legge francese sul 'fine vita'.

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