Le particole intatte sotto le macerie. Come a dire: «Ci sono»
mercoledì 28 febbraio 2018

Caro Avvenire,
è di pochi giorni fa la notizia – lodevolmente riportata dal vostro quotidiano per primo, e poi ripresa da altre fonti giornalistiche – che, a distanza di oltre un anno e mezzo, è stato ritrovato un tabernacolo che era finito sotto le macerie; apparteneva alla chiesa di Santa Maria Assunta ad Arquata, nelle Marche, uno dei Comuni che la notte del 24 agosto 2016 (e poi con successive altre scosse) sono stati colpiti da un violento terremoto. È stato 'miracolosamente' aperto grazie all’ingegno di un parroco: la pisside all’interno era in posizione orizzontale, ma chiusa. Secondo e più importante fatto straordinario: le quaranta particole in essa contenute, dopo tanto tempo, sono risultate completamente intatte (diversamente da quanto succede, dopo solo qualche settimana, nella normalità dei casi). Con gli occhi di un credente, ho letto anch’io questo evento come un momento alto, contemporaneo, dell’Incarnazione: Gesù finito sotto le macerie e riportato 'salvo'! Quanta gioiosa riflessione: un altro modo di condividere (per chi ha il dono e per chi, instancabilmente, cerca la fede), una Presenza sempre 'con noi'. Contro disperazione, delirio di onnipotenza, solitudini e indifferenza.

Renato Omacini Lido di Venezia

Ci sono notizie che non metteresti come titolo di apertura in prima pagina, notizie all’apparenza di minore rilevanza, ma che attirano alla lettura mentre sfogli il giornale e ti spingono a dire a chi hai accanto: 'Leggi qui!'. Notizie che, in questo tempo (anche) digitale, appena lanciate sul web cominciano a camminare: come contagiose, si propagano sui social, si moltiplicano in migliaia di contatti e ancora di nuovo vengono condivise con altri utenti. Molti giornalisti tendono a credere che una notizia sia tale per non più di ventiquattro ore; queste altre notizie invece, date magari all’inizio brevemente, si diffondono per giorni e giorni, in una lunga 'vita' che colpisce gli stessi addetti ai lavori. La storia del tabernacolo di Arquata recuperato, con quaranta ostie consacrate intatte, dalle macerie della Chiesa di Santa Maria Assunta, e raccontata il 21 febbraio scorso dalla nostra collega Alessia Guerrieri (è una di queste notizie feconde e contagiose, trasmessa in pochi giorni a un’infinità di persone. Perché, si può domandarsi. Innanzitutto forse perché quel ritrovamento ha una valenza di speranza, in un momento in cui gran parte dei messaggi che ci sommergono sono pessimisti, scoraggiati, cupi. Come se gli uomini, anche nel villaggio globale del web, cercassero tenacemente e riconoscessero i fatti che sono portatori di fiducia e di bene, e li ridicessero agli amici. Perché speranza, da quel tabernacolo che era stato sommerso dalle macerie, nell’ora del boato in cui la chiesa rovinava su se stessa? Qui bisogna sapere guardare con gli occhi di chi ha fede: l’Eucarestia per i credenti è corpo di Cristo, è cosa viva, e viene rigorosamente conservata nei tabernacoli, portata con ogni cura ai malati, e adorata nelle veglie di preghiera. Non era materia qualunque, quella sommersa dai calcinacci ad Arquata come in altre chiese terremotate: era vita, sepolta sotto la polvere. Le particole, fatte di farina, quasi sempre dopo qualche tempo si deteriorano. Quelle di Arquata strette nel loro scrigno, esposte al gelo e al caldo, si sono conservate integre. Quasi che Cristo volesse dare un segno della sua fedeltà, nella lacerazione e nel lutto di un terremoto. Quasi che volesse dire: io sono rimasto, con il mio corpo, fra voi. Questo hanno letto sul web quelle migliaia di fedeli che hanno a loro volta fatto girare la notizia. E come il lettore Omacini se ne sono commossi, e l’hanno condivisa con chi hanno di più caro. Tra i terremotati, e anche molto lontano da lì. Perché in tanti hanno in sé delle crepe interiori, dolorosamente spaccate e mai risanate; in tanti, pure certi di Cristo, quanto ne vorrebbero qualche volta un segno concreto, come una carezza. E quell’Eucarestia fedele e intatta sotto le macerie, somiglia a questo. Un segno, appunto, che come tale rimanda a qualcosa d’altro, più grande; e che tuttavia è lì, tangibile nella sua umiltà, davanti ai nostri occhi. Il tabernacolo tornato dalle rovine è come il tocco di una mano su una spalla, percepibile appena, eppure capace di incrinare la nostra distrazione. Come sentirsi, con parole silenziose, ripetere: io sono qui, io non vi ho mai lasciati soli.

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