Gentile direttore,
leggo spesso che la crisi attuale della fede cristiana dipende da fenomeni culturali come la secolarizzazione, il soggettivismo, l’individualismo, il relativismo, l’ateismo diffusi nella nostra società. Vero. Ma, a parte che si possono trovare dei valori e delle verità o almeno giuste esigenze anche là, quando, come prete insegnante e confessore, parlo con le persone “di quaggiù” o anche con confratelli, avverto piuttosto (non solo) altre cause: l’eterno problema del male con i suoi risvolti sulla Provvidenza paterna di Dio, il sospetto sui nostri Vangeli a confronto degli apocrifi, gli scandali dati da noi credenti e in particolare dal clero di bassa o di altissima quota (vedi pedofilia, abuso del denaro, ecc.), i lampanti mutamenti avvenuti nella prassi e nelle teorie ecclesiali dopo il pur benedetto Concilio, i discorsi “nuovi” di teologi e di noi biblisti in tanti campi, la nostra troppa rigidità con i “cuori feriti”, l’eccessiva indulgenza con politici “devoti” e indegni, ecc. Allora, con il cardinal Martini e con tanti personaggi biblici, forse ci converrebbe innanzitutto ascoltare e registrare questo tipo di cause che abitano tra di noi, nel nostro stesso animo «credente e dubbioso o mal credente». Martini, ad esempio, una volta disse press’a poco così: «Dopo Auschwitz non si può più credere come prima»; e un mio confratello, dopo i noti scandali in alto: «Io in questa Chiesa non credo più». Sarà stata una battuta, ma ha del vero. Allora un po’ di umiltà, caliamoci nelle nostre zone nebbiose e accendiamo qualche lampadina adatta.
don Giovanni Giavini, Milano
Grazie dell’incalzante stimolo, gentile don Giovanni. Qualche giorno fa, proprio in questo stesso spazio riflettevo sulla parte decisiva che spetta a «noi», a noi tutti che siamo e ci sentiamo cristiani, per dare sostanza e coinvolgente esemplarità alla «vita buona» del Vangelo persino di fronte a chi non si limita a restare lontano o a diventarlo, ma è capace di insultare e perseguitare coloro che hanno incontrato Gesù. Da questa sua lettera affiorano ora questioni vere e anche dure. Di quelle che impongono capacità di ascolto, chiarezza di princìpi e di vita, assidua carità a chi sta “in alto” e a chi sta “in basso” nella Chiesa. E io annoto con gratitudine che alcune delle risposte più umili e forti alle domande più scomode di questo nostro tempo stiano venendo da Papa Benedetto. Penso, in particolare, alla difficoltà e agli errori con cui in alcune Chiese nazionali si sono fatti i conti con i casi di pedofilia tra le persone consacrate e alla indicazione semplice e netta del Santo Padre: schierarsi prima di tutto e senza esitazioni dalla parte delle vittime. Perché in ballo, oggi più che mai, c’è il bene e c’è il male, che bisogna imparare e insegnare a riconoscere. E ci sono gli uomini e le donne del nostro tempo (dentro e fuori la comunità cristiana, mai scontatamente dentro, mai necessariamente e per sempre fuori), che bisogna conoscere. E amare. Solo così si comunicano speranza e fede; solo così si ascolta sul serio e si è ascoltati. Ma naturalmente contano anche l’ambiente e il clima nei quali viviamo. E il cielo oscurato dalle nubi e attraversato dai lampi degli “ismi” che lei cita, gentile don Giovanni, è a suo modo e potentemente attraente, ma impone di far tesoro di ogni fonte di luce e di essere pronti a condividerla. È per questo che, nel mio piccolo e grazie al gran lavoro dei miei colleghi, anch’io cerco di fare il lampionaio: quello, cioè, che accende le lampadine poste agli angoli della città e pure sul sagrato delle parrocchie, lampadine che “raccontano” ogni volta di nuovo una luce che non è di chi l’accende e che spetta a tutti (sia quando svela dolore, sia quando illumina bellezza). E se questo servizio alla chiarezza può riuscire persino a chi fa il giornalista, figuriamoci a chi ha cuore e mani benedette di sacerdote... Penso che lei lo abbia già detto, e dimostrato, a quel suo confratello letteralmente sfidato e sfiduciato dalla cronaca e dall’amarezza. Per quanto mi riguarda, mi sento di dire che conto sulla Parola che ci è data e sulla dirittura e sulla saggezza di chi aiuta anche lei e me a dare senso al cammino, e ancor più quando le nebbie paiono prevalere. Non so se è umile o presuntuoso pensarlo, ma sono convinto che chi crede può vacillare e lo fa, ma non è mai davvero solo, proprio mai. Persino al cospetto del male totale. Come il male che lei evoca citando, a memoria, una frase del cardinal Martini che fa di Auschwitz un suggestivo spartiacque nella storia delle fede. È una frase che ne echeggia altre, da quella di Theodor W. Adorno sulla poesia diventata impossibile dopo la Shoah a quelle di Günter Grass sulla sfida del tornare a vergare parole credibili dopo l’immane ferocia. Io credo che fede e poesia siano più che mai necessarie, perché so che continuano ad accadere piccole e grandi Auschwitz: dal Congo alla Siria, dall’Afghanistan ai due Sudan, dal Messico alla Nigeria. E accadono proprio perché non c’è abbastanza poesia, cioè non c’è abbastanza verità, profondità, bellezza e amore nelle parole che usiamo e che ci usano. E accadono proprio perché non c’è abbastanza fiducia in Dio e tra di noi, e senza fede in Lui tutto cambia. Accadono anche qui, dove noi siamo apparentemente tranquilli. Accadono nello sterminio della speranza e persino della dignità dei più giovani e dei più fragili. So che la voce della Chiesa – che è voce di un popolo che ha tante patrie, nessun nemico e braccia aperte – si alza come quella di nessun altro per gridarlo. E io le credo, come uno che si sforza di non tenere chiusi gli occhi. Credo, con la fede povera e mai tranquilla di un cattolico che, quando vede qualcosa che non va, guarda al Papa e continua a voler bene alla sua Chiesa. Proprio come tanti altri, proprio come lei.