lunedì 15 ottobre 2012
COMMENTA E CONDIVIDI
Gentile direttore,
leggo spesso che la crisi attuale della fede cristiana dipende da fenomeni culturali come la secolarizzazione, il soggettivismo, l’individualismo, il relativismo, l’ateismo diffusi nella nostra società. Vero. Ma, a parte che si possono trovare dei valori e delle verità o almeno giuste esigenze anche là, quando, come prete insegnante e confessore, parlo con le persone “di quaggiù” o anche con confratelli, avverto piuttosto (non solo) altre cause: l’eterno problema del male con i suoi risvolti sulla Provvidenza paterna di Dio, il sospetto sui nostri Vangeli a confronto degli apocrifi, gli scandali dati da noi credenti e in particolare dal clero di bassa o di altissima quota (vedi pedofilia, abuso del denaro, ecc.), i lampanti mutamenti avvenuti nella prassi e nelle teorie ecclesiali dopo il pur benedetto Concilio, i discorsi “nuovi” di teologi e di noi biblisti in tanti campi, la nostra troppa rigidità con i “cuori feriti”, l’eccessiva indulgenza con politici “devoti” e indegni, ecc. Allora, con il cardinal Martini e con tanti personaggi biblici, forse ci converrebbe innanzitutto ascoltare e registrare questo tipo di cause che abitano tra di noi, nel nostro stesso animo «credente e dubbioso o mal credente». Martini, ad esempio, una volta disse press’a poco così: «Dopo Auschwitz non si può più credere come prima»; e un mio confratello, dopo i noti scandali in alto: «Io in questa Chiesa non credo più». Sarà stata una battuta, ma ha del vero. Allora un po’ di umiltà, caliamoci nelle nostre zone nebbiose e accendiamo qualche lampadina adatta.
don Giovanni Giavini, Milano
Grazie dell’incalzante stimolo, gentile don Giovanni. Qualche giorno fa, proprio in questo stesso spazio riflettevo sulla parte decisiva che spetta a «noi», a noi tutti che siamo e ci sentiamo cristiani, per dare sostanza e coinvolgente esemplarità alla «vita buona» del Vangelo persino di fronte a chi non si limita a restare lontano o a diventarlo, ma è capace di insultare e perseguitare coloro che hanno incontrato Gesù. Da questa sua lettera affiorano ora questioni vere e anche dure. Di quelle che impongono capacità di ascolto, chiarezza di princìpi e di vita, assidua carità a chi sta “in alto” e a chi sta “in basso” nella Chiesa. E io annoto con gratitudine che alcune delle risposte più umili e forti alle domande più scomode di questo nostro tempo stiano venendo da Papa Benedetto. Penso, in particolare, alla difficoltà e agli errori con cui in alcune Chiese nazionali si sono fatti i conti con i casi di pedofilia tra le persone consacrate e alla indicazione semplice e netta del Santo Padre: schierarsi prima di tutto e senza esitazioni dalla parte delle vittime. Perché in ballo, oggi più che mai, c’è il bene e c’è il male, che bisogna imparare e insegnare a riconoscere. E ci sono gli uomini e le donne del nostro tempo (dentro e fuori la comunità cristiana, mai scontatamente dentro, mai necessariamente e per sempre fuori), che bisogna conoscere. E amare. Solo così si comunicano speranza e fede; solo così si ascolta sul serio e si è ascoltati. Ma naturalmente contano anche l’ambiente e il clima nei quali viviamo. E il cielo oscurato dalle nubi e attraversato dai lampi degli “ismi” che lei cita, gentile don Giovanni, è a suo modo e potentemente attraente, ma impone di far tesoro di ogni fonte di luce e di essere pronti a condividerla. È per questo che, nel mio piccolo e grazie al gran lavoro dei miei colleghi, anch’io cerco di fare il lampionaio: quello, cioè, che accende le lampadine poste agli angoli della città e pure sul sagrato delle parrocchie, lampadine che “raccontano” ogni volta di nuovo una luce che non è di chi l’accende e che spetta a tutti (sia quando svela dolore, sia quando illumina bellezza). E se questo servizio alla chiarezza può riuscire persino a chi fa il giornalista, figuriamoci a chi ha cuore e mani benedette di sacerdote... Penso che lei lo abbia già detto, e dimostrato, a quel suo confratello letteralmente sfidato e sfiduciato dalla cronaca e dall’amarezza. Per quanto mi riguarda, mi sento di dire che conto sulla Parola che ci è data e sulla dirittura e sulla saggezza di chi aiuta anche lei e me a dare senso al cammino, e ancor più quando le nebbie paiono prevalere. Non so se è umile o presuntuoso pensarlo, ma sono convinto che chi crede può vacillare e lo fa, ma non è mai davvero solo, proprio mai. Persino al cospetto del male totale. Come il male che lei evoca citando, a memoria, una frase del cardinal Martini che fa di Auschwitz un suggestivo spartiacque nella storia delle fede. È una frase che ne echeggia altre, da quella di Theodor W. Adorno sulla poesia diventata impossibile dopo la Shoah a quelle di Günter Grass sulla sfida del tornare a vergare parole credibili dopo l’immane ferocia. Io credo che fede e poesia siano più che mai necessarie, perché so che continuano ad accadere piccole e grandi Auschwitz: dal Congo alla Siria, dall’Afghanistan ai due Sudan, dal Messico alla Nigeria. E accadono proprio perché non c’è abbastanza poesia, cioè non c’è abbastanza verità, profondità, bellezza e amore nelle parole che usiamo e che ci usano. E accadono proprio perché non c’è abbastanza fiducia in Dio e tra di noi, e senza fede in Lui tutto cambia. Accadono anche qui, dove noi siamo apparentemente tranquilli. Accadono nello sterminio della speranza e persino della dignità dei più giovani e dei più fragili. So che la voce della Chiesa – che è voce di un popolo che ha tante patrie, nessun nemico e braccia aperte – si alza come quella di nessun altro per gridarlo. E io le credo, come uno che si sforza di non tenere chiusi gli occhi. Credo, con la fede povera e mai tranquilla di un cattolico che, quando vede qualcosa che non va, guarda al Papa e continua a voler bene alla sua Chiesa. Proprio come tanti altri, proprio come lei.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI