sabato 5 novembre 2016
Le consolazioni della profezia
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Non sono mio contemporaneo, nessun poeta lo è.
Sono vostro contemporaneo, ogni poeta lo è

Giovanni Casoli, Tutto è intimo


Nahamù nahamù ’ammì: «Consolate, consolate il mio popolo» (Isaia 40,1). Con queste parole inizia la seconda parte del libro di Isaia. Un’opera di un autore rimasto senza nome, che si riconosce nella scuola del primo Isaia e che la tradizione biblica ha voluto inserire dentro lo stesso rotolo. Un autore diverso, vissuto circa due secoli dopo il primo profeta "figlio di Amos’", ma non inferiore al primo per forza profetica e poetica.

Il secondo Isaia è profeta dell’Esilio. Agisce e parla durante la deportazione babilonese, nell’esperienza più drammatica della storia antica del popolo ebraico. Noi siamo troppo abituati a leggere il successo come indicatore di una vita realizzata per poter comprendere i profeti e la realizzazione della loro vocazione. Facciamo molta fatica a capire che le loro parole più belle sono fiorite durante i grandi fallimenti. L’enorme prova dell’esilio – la sconfitta militare, la distruzione del tempio di Gerusalemme, l’esilio in terra straniera – ha generato pagine meravigliose, parole sublimi sulla speranza e sulla fede che continuano a nutrirci dopo millenni, e, soprattutto, ha operato una rivoluzione religiosa di portata epocale.


L’esperienza dell’esilio fu un evento politico e civile, certamente, ma fu anche un evento teologico. Quella grande sciagura insegnò agli ebrei e poi all’umanità intera che Dio può essere vivo e vero anche essendo un Dio-senzafissadimora. E li costrinse a rispondere a una nuova, radicale, tremenda, domanda: come continuare, dopo l’esilio, a credere nel Dio di prima? Per conservare la fede dopo quella grande battaglia ci volle il carisma dei profeti, di Geremia, di Isaia, il genio del secondo-Isaia. Questo profeta anonimo fu capace di una triplice straordinaria operazione: a) ricondurre alla volontà di YHWH la cattività babilonese, b) salvare così la verità di Dio e della promessa, c) promettere una nuova liberazione credibile. Se anche la sconfitta era stata voluta da Dio per punire la loro infedeltà, allora la liberazione è ancora possibile. Per compiere questa operazione difficilissima, essenziali furono i giudizi del primo Isaia sulla infedeltà del popolo e dei suoi capi, le parole durissime sui falsi sacrifici nel tempio.

Le profezie di condanna del primo-Isaia divennero il materiale con il quale il secondo-Isaia costruì la sua profezia di salvezza. La pietra che il popolo aveva scartata, divenne la testata d’angolo della nuova casa. Consentire ai profeti di criticare oggi la comunità nei tempi della libertà e della gioia, rende possibile ai profeti di domani di profetizzare una salvezza non-vana nei tempi della schiavitù e del dolore. Tappare loro la bocca per impedirgli di criticare lo status quo sempre in cerca di consensi, significa privarsi della sola possibilità della salvezza durante gli esili futuri. Le critiche dei profeti non-falsi sono sempre alta espressione di agape e di bene comune, ma non lo sappiamo e continuiamo a zittirli. Le lodi ruffiane dei profeti-falsi sono, invece, sempre male comune, ma non lo sappiamo e continuiamo ad ascoltarli, soprattutto durante le crisi.

Il secondo-Isaia trasformò così una grande sventura in un grande messaggio di salvezza, generando una nuova fede. Il Dio sconfitto da un popolo dagli dèi diversi e splendidi, poteva restare il Dio vero anche se era diventato un Dio vinto. E da qui l’emergere della consapevolezza che la verità non coincide con il potere e con la forza, che il Dio vero non è il Dio che fa vincere le guerre, e che lo sconfitto militare non è anche uno sconfitto religioso e spirituale. Che la vera spiritualità può nascondersi dentro un grande fallimento, che la sofferenza non è maledizione ma può diventare una larga via di salvezza: «Una voce grida: "Nel deserto preparate la via al Signore, spianate nella steppa la strada per il nostro Dio. Ogni valle sia innalzata, ogni monte e ogni colle siano abbassati. La tortuosa viottola sarà pianura, il dirupo si spianerà"» (40,3-5). Queste parole fioriscono solo sulla bocca dei profeti, nel tempo dell’esilio.

Fu religiosa la grande sfida e la grande tentazione dell’esilio. Ritrovarsi in cattività nel cuore di un impero imponente, tra statue altissime portate in processioni spettacolari nelle loro larghissime strade, divenne una costante e perenne domanda sulla verità della fede dei loro Padri. Per secoli avevano creduto nella prima promessa, avevano imparato a distinguere il loro Dio dagli idoli e dagli altri dèi, avevano creduto che il loro Elohim era diverso – dal nome impronunciabile, non rappresentabile, che non si poteva né toccare né vedere – perché era il Dio fedele e vero, perché creatore del cielo e della terra di tutti, anche della terra e del cielo di coloro che veneravano altri dèi.

Avevano creduto che YHWH li avrebbe protetti dai nemici, non avrebbe consegnato il popolo in mani nemiche, che il suo tempio era indistruttibile. Avevano creduto che l’attraversamento del mare era sta la liberazione definitiva, che non sarebbero stati più schiavi. Nessuno poteva pensare che quel Dio vero li avrebbe riportati in schiavitù, che la promessa era stata vana, che il tempio non fosse più. Nessuno, tranne i profeti, che vengono al mondo per svelarci le salvezze dentro i fallimenti, le rovine dentro i successi, la speranza dentro la disperazione. Per insegnarci la fedeltà a un Dio vinto e sconfitto. Quell’oltre mezzo secolo di esilio – dal quale tornò soltanto un "resto", come era stato profetizzato dal primo Isaia – fu allora il luogo e il tempo per imparare una nuova fede più spirituale, per scoprire una nuova promessa, per superare l’idea di Dio legato al successo militare e politico. Per liberare Dio dalle nostre liti terrene, e con lui liberare noi stessi da un Dio troppo piccolo.

Il testo ci narra la vocazione del secondo-Isaia. Un racconto che non è variopinto e spettacolare come quelli di Isaia, Geremia, Mosé. Non ci sono roveti ardenti, né serafini. È un dialogo scarno, sobrio, ma tra i più belli di tutta la Bibbia. Eccolo: «Una voce dice: Grida! Ed io dico: "Che cosa grido?" Ogni carne è erba e tutta la sua grazia come il fiore del campo. L’erba si secca, il fiore avvizzisce, appena il soffio di Lui li tocchi» (40,6-7). E il popolo risponde: «Sì, il popolo è erba».

Ridotta all’essenziale, e grazie allo sfondo buio dell’esilio, qui possiamo vedere la vocazione nella sua meravigliosa purezza. Vocazione è una voce che ti dice: "devi gridare"! Il gridare vocazionale profetico non è il semplice parlare: è più forte, radicale, è un parlare "a voce alta", una voce che non può tacere e che deve raggiungere tutti, che è irrefrenabile. A questo comando il secondo-Isaia non risponde con un immediato "eccomi". Risponde invece con una domanda: "Che cosa grido?". Come a dire: che cosa c’è da gridare, da profetizzare, da predicare (Lutero) in questo tempo di esilio? Cosa devo gridare? Che siamo come erba, calpestati come i prati durante il passaggio dell’esercito babilonese? Devo urlare che siamo effimeri come tutti gli uomini, conquistati e fatti prigionieri come tutti gli altri? Devo dire forte che tu, il nostro Dio che pensavamo invincibile, ti sei dimostrato come tutti i dèi degli altri popoli, conquistati e spazzati via da dèi più potenti? Devo gridare che ci siamo sbagliati, che la promessa era falsa, che l’alleanza era più debole di un trattato di vassallaggio con un qualsiasi impero?

Sono queste le prove vere dei profeti durante tutti gli esili. Ma in quella stessa domanda e nelle parole che la seguono, prese in prestito dai salmi, possiamo anche vedere una dimensione preziosa della vocazione profetica nel tempo delle grandi prove. Da quel dialogo intuiamo che il profeta dà voce ai sentimenti più profondi e veri della sua gente, sfiduciata, prostrata, delusa, che vuole lasciarsi andare, arrendersi a chi dice "il vostro è stato solo un sogno, che ora è finito" – le stesse prove che riconosciamo in tutti gli esili di chi ha seguito una voce. Quell’antico profeta senza nome lo sa. E così, nell’iniziare la sua missione, e nel presentarsi alla sua comunità come profeta esiliato, cerca di raggiunge le midolla dell’anima della sua gente.

Di fronte alla voce che lo chiama a diventare profeta, porta tutto il dolore del suo popolo esiliato e colpito nel cuore della sua fede e identità. Non ha paura di esprimere gli stessi dubbi e lo stesso scoraggiamento. E la sua vocazione diventa collettiva, ecclesiale. Raggiunge il popolo nell’abisso morale e spirituale nel quale era precipitato. E il popolo gli risponde: "Sì, il popolo è erba": Sì siamo fragili, poveri, schiacciati, umiliati. Lo siamo veramente. "Sì, il popolo è erba. Siamo come l’erba". La traduzione italiana non aiuta a cogliere la bellezza e l’importanza di quel dialogo, ma dal testo originale si comprende che in quell’esilio può essere accaduto qualcosa di speciale. Il coro è diventato protagonista della tragedia: come Edipo, come Antigone. Come Giobbe.

Affinché una vocazione profetica porti i suoi frutti tipici ed essenziali, c’è bisogno che i profeti non abbiamo paura di fare domande alla voce che li chiama, non temano di portare dentro il loro dialogo vocazionale le ferite più profonde del popolo, di toccarle per sanarle. Quasi sempre, invece, i profeti, anche quelli veri e onesti, si fermano troppo presto nell’attraversamento dei dolori profondi della propria gente. E così la profezia è epidermica, cosmetica, dice solo parole piccole, non riesce a gridare, non salva nessuno. Mancando il Sì del popolo la profezia non convince, non è sponsale, non diventa carne, la speranza è troppo facile per essere credibile. Affinché nei tempi della prova il grido dei profeti sia anche il grido del popolo, occorre che i profeti siano capaci di "discendere agli inferi" e lì incontrare i loro morti e farli risorgere. È così che i profeti consolano il loro popolo. Non conoscono altra consolazione vera. Nahamù nahamù ’ammì: «Consolate, consolate il mio popolo».

L.bruni@lumsa.it

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