giovedì 3 febbraio 2011
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L'Istat ci ha, dunque, fatto sapere che la disoccupazione giovanile (15-24 anni) è arrivata al 29%. È un dato pesante, specie se confrontato con la media Ue del 20%. Tuttavia si può reagire con allarmismo miope, confondendo la causa con l’effetto. La difficoltà dei giovani a trovare lavoro dipende dalla rigidità di un mercato del lavoro costruito non sui diritti di chi prova a lavorare oggi, ma sulle tutele di chi il lavoro ce l’ha e – soprattutto – l’ha avuto. Un sistema che garantisce chi è già garantito. Chi è dentro ha tutto, chi è fuori ha nulla.Un terzo di tutta la spesa pubblica italiana (pari al 15% del Pil) è destinato ai pensionati, già oggi il 22% della popolazione. Pensioni al minimo per molti, ma anche "pensioni d’oro" per tanti, relativamente alte perché erogate ancora in regime retributivo: in media il 70% dell’ultimo salario (mentre la media dei Paesi Ocse è il 60%). Con la fatica dei (pochi) giovani che lavorano, così, stiamo arricchendo generazioni già privilegiate. Nel 1977 il 38% degli anziani erano tra le famiglie con reddito più basso; nel 2004 sono solo il 18%. In compenso il 28% delle famiglie più povere è sotto i 40 anni. I lavoratori atipici (prevalentemente giovani) versano obbligatoriamente il 26% all’Inps; una cifra che oggi non serve a finanziare il futuro della propria previdenza, ma il passato di chi beneficia delle pensioni. Lo scorso anno l’Inps non ha rilasciato i dati di simulazione pensionistica dei parasubordinati perché altrimenti – parole testuali del suo presidente – «rischieremmo il sommovimento sociale».Oltre al danno, la beffa. Prima della riforma fiscale degli anni 70, i salari netti medi ponderati erano circa il 10% più alti degli attuali. Dove sono andati in 35 anni questi maggiori introiti della finanza pubblica? L’aumento della spesa pubblica non è andato in formazione, nemmeno in sostegno alla maternità: la gran parte è finita appunto in pensioni. La rivoluzione non avviene solo perché i genitori stanno aiutando i figli. Ma  è una solidarietà intergenerazionale obbligata e (quindi) fragile, che nel lungo periodo è destinata a diventare conflitto. Con il miglioramento dei sistemi di cura, 12.000 nati in meno ogni anno e con 16.000 ultracentenari (sempre dati Istat), pochi ex-giovani italiani senza pensione dovranno accudire non una, ma due generazioni: avranno tempo e denaro per restituire il favore ricevuto?La lotta alla disoccupazione giovanile si fa migliorando la condizione di chi si affaccia sul mercato del lavoro, ma comincia anche con un riequilibrio generazionale dei diritti di accesso alle garanzie e alle opportunità. Operazione difficile per una classe politica vecchia, che sa che il 40% dell’elettorato ha più di 65 anni, e quasi impossibile per un sindacato con la maggioranza degli iscritti pensionati. Una soluzione non rivoluzionaria e di buon senso, però, ci sarebbe: potenziare le pensioni integrative. Oggi solo un lavoratore su cinque le utilizza e la maggioranza sono lavoratori maturi e dipendenti. Perché non pensare a un’alleanza per il futuro nel quale le istituzioni pubbliche offrano garanzie e regolazione ai sistemi previdenziali o assicurativi privati o delle grandi imprese o delle associazioni, agevolando i trasferimenti patrimoniali tra generazioni, così da garantire forme di risparmio previdenziali per i più giovani? La previdenza pubblica, in fondo, è nata così: quando Bismark a fine Ottocento ha imitato le previdenze delle grandi imprese private. Per lui si trattava di strappare i lavoratori ai socialisti e portarli nell’orbita dello Stato. Per noi di strappare i giovani dal passato e proiettarli al futuro.
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