venerdì 15 luglio 2011
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La notizia del licenziamento di una giovane lavoratrice, madre di quattro figli, ora in stato vegetativo, ripropone, da una prospettiva singolare quanto particolarmente penosa sul piano umano, lo storico problema di quale sia il giusto equilibrio tra esigenze organizzative dell’impresa e ragioni di tutela della persona che vi lavora. Vista la piega che ha preso la vicenda sarà con buona probabilità un magistrato a valutare, alla luce delle circostanze del caso concreto, se vi siano stati abusi e irregolarità da sanzionare. Ancora non conosciamo tutti i dettagli della vicenda, ma non possiamo non sostenere con forza che, almeno in alcuni casi, il rispetto formale di leggi e contratti non basta per stare dalla parte della ragione. Di fronte al dolore di una famiglia e alla estrema debolezza di una persona malata o disabile, anche soggetti per definizione votati al profitto, come le imprese, devono saper attendere e far prevalere le ragioni dell’umanità e della carità o, quantomeno, del buon senso se queste difettano.Ma, al di là del caso specifico, resta una riflessione più ampia sul delicato tema del rapporto tra malattia e lavoro. Il nostro Paese contempla infatti, almeno sulla carta, uno dei quadri normativi più avanzati a livello europeo e internazionale. Grazie anche alla legge Biagi, che ha previsto un corpo di diritti specifici e rafforzati per i lavoratori affetti da patologie oncologiche, si è sviluppata negli ultimi anni una maggiore sensibilità da parte degli attori del nostro sistema di relazioni industriali contribuendo a un più avanzato equilibrio tra esigenze di efficienza aziendale e tutela del lavoratore colpito da gravi malattie. Molti contratti collettivi, oggi, prevedono importanti misure per conciliare i tempi di cura con i tempi di lavoro. E anche, con riferimento al caso di cronaca, significativi periodi di sospensione (retribuita e no) del rapporto di lavoro. Quello che gli addetti ai lavori chiamano "periodo di comporto". E cioè un periodo predeterminato, calcolato in base alla anzianità di servizio del lavoratore, durante il quale è giustificata la sospensione del lavoro impedendo così il licenziamento del lavoratore malato. Il trattamento retributivo varia da contratto a contratto. In genere, è pieno per i primi mesi, per ridursi al 50 per cento negli ultimi mesi di assenza.Il problema è che spesso questi diritti non sono conosciuti dai lavoratori e neppure dagli addetti ai lavori. Nel settore gomma-plastica, dove era impiegata la sfortunata lavoratrice bergamasca, esaurito il periodo di conservazione del posto di lavoro, pari a dodici mesi, sarebbe stato possibile richiedere una aspettativa non retribuita di altri cinque mesi. Fermo restando che, sempre per espressa previsione del contratto collettivo del settore, in presenza di malattie particolarmente gravi per natura e continuità di assenza, documentate clinicamente, azienda e sindacato aziendale possono esaminare, con buon senso e pragmatismo, ulteriori interventi a tutela del malato. Per esempio la richiesta, ragionevole in prossimità della pausa estiva, di un periodo di ferie retribuite in luogo di una sospensione non indennizzata che, come tale, non è sempre sostenibile da famiglie senza grosse disponibilità economiche. A conferma che, in questo come in altri casi, il giusto equilibrio tra esigenze organizzative dell’impresa e ragioni di tutela di chi lavora non è mai qualcosa di astratto e tanto meno può essere predeterminato e governato da una fredda norma di legge.
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