giovedì 8 novembre 2012
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La rielezione di Barack Obama fa certamente piacere ai popoli africani. Le sue – è bene rammentarlo – sono radici che affondano nell’etnia Luo, quella insediata sulla sponda orientale del lago Vittoria, in Kenya. Bisogna, però, riconoscere che, nel corso del suo primo mandato, il presidente meticcio dalla pelle nera ha fatto ben poco per il suo Continente d’origine, deludendo le aspettative di molti governi.A parte l’appoggio statunitense al progetto di autodeterminazione del Sud Sudan, che peraltro si è rivelato problematico più del previsto anche per le negligenze della diplomazia Usa (un accordo tra Nord e Sud Sudan non poteva prescindere da una definizione chiara e netta dei confini e dall’equa gestione dei profitti petroliferi), durante la campagna elettorale per le presidenziali, le grandi questioni come quella somala e darfuriana hanno registrato uno scarso interessamento da parte della Casa Bianca. Al contempo, nel corso del primo mandato di Obama, Hillary Clinton, in qualità di segretario di Stato, ha tentato di riaffermare, visitando ripetutamente le principali capitali africane, il vecchio teorema del marito Bill, Trade not Aid (accordi commerciali, non programmi di aiuto allo sviluppo).Una strategia, questa, fortemente criticata da tanta società civile africana e occidentale, che, alla prova dei fatti, risponde solo e unicamente a logiche d’affari e che proprio per questo è stata messa in crisi dall’emergere imperioso dei Brics, Cina e Brasile su tutti, che stanno 'comprando' Africa mettendo in difficoltà molte imprese a stelle e strisce. Una cosa è certa: se si esclude l’attenzione alla sponda nordafricana, teatro delle primavere arabe, durante la campagna elettorale di questi mesi Obama ha nominato l’Africa assai raramente. Washington, per iniziativa di George W. Bush, alla vigilia della prima elezione di Obama, aveva reso operativo Africom, un comando militare per coordinare tutte le operazioni Usa nel continente. Con il risultato che l’Africa in questi anni si è trasformata in una sorta di piattaforma strategica contro il terrorismo internazionale, anche se i risultati, guardando a quanto è accaduto in Nigeria, in Kenya, nella regione maliana dell’Azawad e in Somalia, hanno lasciato molto a desiderare.Considerando lo scacchiere geopolico africano che, per quanto concerne le cosiddette commodities (fonti energetiche e materie prime alimentari), è a dir poco strategico nella contesa tra i Grandi della Terra, c’è davvero da augurarsi che Obama, attraverso la sua politica estera, sostenga le tesi sociali che lo hanno visto paladino in patria, ad esempio, della parte migliore (quella solidaristica e non ideologica e abortista) della riforma sanitaria. A dire il vero, nel giugno scorso, a meno di sei mesi dalla scadenza elettorale, il presidente ora rieletto ha provato a elaborare un piano organico per la cooperazione economica con l’Africa, con l’intento di arginare la supremazia cinese, ma esso sembra rispondere ancora ai vecchi criteri della realpolitik.I suoi consiglieri finora, a partire da Hillary Clinton, lo hanno sempre invitato a evitare l’approccio europeo all’Africa, considerato perdente, basato su aiuti allo sviluppo condizionati al miglioramento dei parametri di democrazia e diritti. Da questo punto di vista, la sfida per Obama sarà quella di promuovere una governance solidale che tenga conto, non solo delle istanze commerciali, ma anche delle necessità di tanta società civile che in Africa, da anni, invoca la globalizzazione dei diritti. Ben vengano, insomma, gli investimenti stranieri, per la realizzazione, ad esempio, di infrastrutture, in un approccio che assicuri crescita rispettosa della persona, dell’ambiente e della cultura per tutti i popoli africani. La responsabilità di Obama rimane dunque alta anche se, per dirla con le sue parole «the past is gone, the future is not yet», il passato è trascorso, il futuro non è ancora arrivato.
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