Dl asilo: dubbi su legalità ed efficacia
martedì 25 settembre 2018

Il decreto voluto dal ministro dell’Interno Matteo Salvini sulla riforma dell’asilo (non "sull’immigrazione", come capita di leggere) ha visto la luce nell’ambito di un più ampio decreto-sicurezza. Già questa scelta è eloquente: i rifugiati non sono visti come persone da proteggere, ma come una minaccia per il Paese che li riceve. Una minaccia da contrastare e limitare, a prescindere da eventuali comportamenti illegali, fin dal momento della definizione del loro diritto alla protezione internazionale.

È in causa in modo particolare la formula della "protezione umanitaria", quella maggiormente utilizzata in Italia per concedere asilo. Il governo intende ridurla a pochi casi: persone affette da gravi problemi di salute o bisognose di particolari cure mediche, vittime di violenza domestica, di grave sfruttamento, di catastrofi naturali, o per atti di particolare valore civile nel nostro Paese.

Per introdurre una riflessione sull’argomento, è necessario un chiarimento. Se la dizione "protezione umanitaria" è tipicamente italiana, istituti sostanzialmente analoghi sono in vigore in 22 Paesi europei: sostanzialmente in tutta l’Europa occidentale. La protezione umanitaria o i suoi equivalenti sono uno strumento flessibile e abbastanza discrezionale nelle mani delle autorità. Viene adottata per concedere uno status legale a persone che non riescono a dimostrare di essere state perseguitate individualmente, ma provengono da Paesi pericolosi o instabili o potrebbero correre gravi rischi se venissero rimpatriate.

Rientrano in una ridefinizione del diritto di asilo che da tempo è andata oltre la ristretta accezione dell’asilo politico stabilita dalla convenzione di Ginevra del 1951, nel clima della guerra fredda. Inoltre, in Paesi in cui non si emanano facilmente sanatorie collettive per grandi numeri di immigrati, la protezione umanitaria viene utilizzata per risolvere pragmaticamente varie situazioni, che possono spaziare dal soggiorno prolungato sul territorio, all’avere instaurato legami stabili e generato figli, all’inserimento lavorativo. Un caso tipico è quello delle donne sole con bambini.

È noto che i provvedimenti governativi sull’immigrazione hanno spesso una dimensione simbolica e comunicativa che deborda dal merito delle questioni da affrontare. In altri termini, guardano all’opinione pubblica e al consenso interno più che ai problemi concreti e alla cornice giuridica in cui dovrebbero situarsi. La riforma dell’asilo contenuta del decreto approvato dal Consiglio dei ministri rientra in questo schema. Presenta almeno tre ordini di problemi: di legalità, di efficacia e di utilità.

Sul primo aspetto, la legalità, si prevede una pioggia di ricorsi alla Corte costituzionale e all’Alta Corte di Strasburgo. La "svolta ungherese" del Governo italiano non passerà inosservata, e lo scostamento dalle tendenze del diritto internazionale sull’asilo non sarà facile da giustificare. Ancora una volta, delle persone in condizioni di fragilità rischiano di diventare ostaggio di interessi politici di corto respiro.

Circa l’efficacia, la prevedibile conseguenza sarà un aumento delle persone sbandate nelle nostre città, prive di tutele e di risorse. È vero che il governo Conte nel decreto prevede di allungare a 180 giorni la detenzione nei Centri di permanenza per il rimpatrio e di aumentare le risorse per le espulsioni, ma già in passato misure analoghe avevano prodotto pochi effetti: sotto i governi Berlusconi-Maroni il tempo di detenzione era stato portato a 18 mesi, ma meno della metà dei non molti immigrati irregolari internati veniva effettivamente espulso.

Sorge allora il problema dell’utilità per il nostro Paese. Al di là degli slogan, far lievitare il numero dei richiedenti asilo denegati non aumenterà né la sicurezza né l’ordine delle nostre città. Anche se forse un buon numero di italiani applaudirà la stretta anti-protezione umanitaria e gli slogan che già l’accompagnano, chi davvero ha a cuore la sicurezza e i diritti di tutti non potrà mancare di far sentire la propria voce durante l’iter di conversione in Parlamento.

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