martedì 16 dicembre 2014
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«L’Unione Europea si faccia i fatti suoi». Non ci potrebbe essere frase più eloquente di questa per descrivere la deriva ormai platealmente autoritaria che la Turchia di Recep Tayyp Erdogan ha imboccato da quando il suo premier, tre volte vittorioso alle elezioni politiche e forte di un vasto consenso popolare, ha assunto la carica di presidente tramutandosi di fatto in un padre–padrone quasi incontrastato. Diciamo quasi, perché nel variegato corpo della società anatolica agli occhi di Erdogan vi sono ancora «sacche di eversione», «uno Stato nello Stato», i cui principali esponenti sarebbero nientemeno che i giornalisti del diffusissimo quotidiano Zaman (il cui direttore è stato arrestato sabato sera insieme a ventisette colleghi e al suo omologo della tv privata Samanyolu), che da due giorni vanno a fare compagnia ai settantasei giornalisti turchi che già si trovano dietro le sbarre.  Il «repulisti dei traditori», come lo chiama Erdogan, che include anche magistrati e funzionari di polizia nasconde una battaglia politica senza esclusione di colpi fra il presidente e il suo antico alleato politico Fetullah Gülen, ricchissimo magnate dell’editoria e controllore di fatto della Bank Asya (il sesto istituto di credito privato turco), che oggi vive in esilio in Pennsylvania ed è nemico dichiarato di Erdogan. Lo screzio fra Gülen e Erdogan aveva raggiunto l’apice esattamente un anno fa, quando esplose una sorta di Tangentopoli che aveva coinvolto molti dei fedelissimi del premier e perfino il figlio Bilal. La dura risposta di Erdogan – che accusò esplicitamente Gülen di essere il regista dello scandalo – portò alla rimozione di almeno duecento magistrati e circa settemila fra funzionari e dirigenti della pubblica amministrazione. L’accusa, per tutti, è la più grave che sia: terrorismo. Lo stesso Gülen tuttavia non è immune dal vizio di imbavagliare la stampa: a suo tempo pretese che si usasse mano dura contro i cronisti che indagavano sulla sua Cemaat, l’organizzazione politica di intonazione islamica di cui è tuttora l’ispiratore.  Diciamolo senza mezzi termini: la Turchia non è mai stata un Paese campione di democrazia e nemmeno una paladina dei diritti dell’uomo a cominciare dal suo grande modernizzatore, quel Kemal Atatürk che laicizzò lo Stato, riconobbe la parità dei sessi, istituì il suffragio universale, abolì il fez e il velo, ma fu spietato nei confronti degli avversari. Ma ciò che sconforta, sgomenta, addolora è constatare come un grande Paese, prezioso tassello del sistema difensivo Nato, da sempre considerato come potenziale candidato all’ingresso nella Ue stia imboccando la strada opposta, quella di una satrapia tanto simile ai regimi di Mosca, di Pechino, del Cairo. Regimi in cui la libera stampa è il nemico numero uno, dove la circolazione delle idee è ritenuta pericolosa per la sicurezza dello Stato, dove aprire un blog, inviare un tweett sgradito al potere può costare la prigione. Come è accaduto ai ragazzi di Gezi Park che protestavano a Istanbul e si vedevano incarcerare per aver spedito un sms per rassicurare i genitori, come accade a Teheran a un blogger che criticava il governo, e così pure ai giornalisti di Al Jazeera arrestati al Cairo in quanto «vicini ai Fratelli musulmani e una minaccia per il Paese».  Da ogni parte del mondo (quello occidentale, per lo meno) si levano le proteste nei confronti di Ankara. «L’Italia – fa sapere il ministro degli Esteri Gentiloni – non ha intenzione di dare lezioni a nessuno, ma ci sono diritti fondamentali, fra questi la libertà di espressione, che sono inderogabili».  Tuttavia emarginare Erdogan, inserirlo nella lista nera dei satrapi mediorientali servirebbe soltanto a provocare una ripicca autarchica che lo allontanerebbe ulteriormente dall’Europa. Un’Europa che ha colpevolmente traccheggiato, esitato e spesso imbrogliato le carte nel lungo balletto attorno alla candidatura turca all’ingresso nell’Unione e che, esasperando parti della classe dirigente e altri (e assai battaglieri) settori offrendo loro pretesti, ha contribuito a esasperare il nazionalismo di Ankara. Occorrono passi indietro da parte di entrambi e passi in avanti verso un’integrazione che quasi tutti i Paesi membri ancora incoraggiano. A condizione però che la Turchia scelga senza ambiguità fra democrazia (che non è imbelle e sa difendersi) e regime autoritario. Vie di mezzo non ve ne sono. Non in Europa.
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