giovedì 12 maggio 2022
Il caso della «bozza» della Corte Suprema e la profondità del federalismo americano
La sentenza sull'aborto negli Usa rimette al centro la democrazia

Ansa

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Respinto ieri sera al Senato americano il primo tentativo di trasformare in legge la sentenza del 1973 della Corte Suprema che ha legalizzato l’aborto negli Stati Uniti: 49 i voti a favore, 51 i contrari (tutti i repubblicani e un democratico, per il sì erano necessari 60 voti).

L’America sta per eliminare il diritto all’aborto. La Corte Suprema, con una manovra oscurantista e reazionaria di giudici conservatori, è in procinto di far sprofondare la nazione nel baratro dell’aborto illegale. Così vanificando le battaglie progressiste di più di cinquant’anni di attivismo politico e movimentista. Questo è quanto si legge su molti dei giornali americani ed europei, italiani compresi. Ma la vicenda è notevolmente più complessa. Per comprendere Roe v. Wade, la sentenza della Corte Suprema che nel 1973 sancì il 'diritto' all’aborto a livello costituzionale, ora messa in discussione dalla stessa Corte sulla base della bozza di sentenza predisposta dal giudice Alito, bisogna intendere la profondità del federalismo americano e quello che questo implica. Il meccanismo federale – detto in forma semplice – si sviluppa su due binari: da un lato la ripartizione di potere e competenze tra Stati e 'Centro federale', dall’altro, i limiti alla potestà legislativa degli Stati imposti dalla Costituzione e dalla legislazione federale. Questo vuol dire che gli Stati Uniti sono una nazione federale, vera, costruita su una divisione tra potere statale e federale. Nella pratica questo significa che gli Stati dell’Unione hanno potestà legislative dirette su materie di primaria importanza.

Il diritto penale e la sua procedura, misura della sensibilità culturale di un Paese, sono prevalentemente statali. Ci sono delle eccezioni, ma sono poche. Del resto, in alcuni Stati vige la pena capitale, mentre in altri no. Ma questo non desta scandalo. Anche il diritto privato e quello societario sono statali e gli Stati competono tra loro anche offrendo sistemi di regole diverse. Poi ci sono le zone d’ombra. E la questione diventa più complicata. Quali materie siano nella giurisdizione degli Stati o dell’Unione (o di entrambi) non è facile questione. Nella Carta costituzionale, esiste un criterio di prelazione a favore della Costituzione e della legge federale, nel senso che queste prevalgono su quella sta- tale, laddove vi fosse un conflitto. L’esegesi è semplice quando la materia è nella Costituzione o il legislatore federale (il Congresso) abbia esplicitamente inteso 'occupare' quella materia, come nel caso del diritto antitrust. Più difficile quando quell’intenzione è implicita. Nel dubbio, si presume che la giurisdizione appartenga agli Stati e non all’Unione.

Ma la Costituzione riconosce anche diritti ai cittadini. Diritti di rango costituzionale, appunto. Tra tutti, le libertà sancite dal Primo Emendamento. Questi diritti costituiscono il vincolo entro cui la potestà legislativa degli Stati può essere esercitata. Una legislazione che, in ipotesi, comprimesse la libertà di parola sarebbe incostituzionale. Il potere legislativo in tema di aborto appartiene 'naturalmente' agli Stati. E basta vedere le diverse regolamentazioni per rendersi conto dell’eterogeneità degli approcci alla disciplina. Alcuni Stati riconoscono addi- rittura la legittimità del late term abortion, l’aborto al nono mese, sotto certe condizioni, neanche troppo cogenti. Anche questo non desta scandalo.

Il 'diritto' costituzionale all’aborto nasce cinquant’anni fa, quando decidendo Roe v. Wade la Corte Suprema invalidò una legislazione texana che proibiva l’aborto. Ma quel 'diritto' fu sancito con un doppio salto mortale argomentativo; un salto che rifletteva l’attivismo giudiziario dei tempi, riflesso nel teleologismo interpretativo: gli obiettivi, prima di tutto. Così dalla previsione del «giusto procedimento» ( Due Process Clause), contenuta nel quattordicesimo emendamento, sono stati dedotti alcuni diritti, tra cui quello alla privacy. Fin qui tutto bene: nel nome della privacy sono state dichiarate incostituzionali alcune legislazioni statali ritenute intrusive della sfera personale e di autonomia dell’individuo. Ma ecco il salto – mortale – della sentenza Roe v. Wade: dalla privacy è stato poi dedotto un diritto costituzionale e assoluto all’aborto, entro il primo trimestre di gravidanza. Oltre tale termine, la materia è competenza degli Stati.

La bozza di sentenza che il giudice Alito ha predisposto, malamente circolata, violando tra l’altro un precedente secolare di riservatezza della Corte, invaliderebbe la dottrina Roe v. Wade. Dice chiaramente la bozza che dalla Costituzione americana non sarebbe possibile dedurre alcun diritto all’aborto. Il criterio interpretativo che giustifica la conclusione è l’originalismo, approccio tra i più accreditati tra i costituzionalisti e neanche troppo inviso ai giuristi progressisti. In parole semplici, si può dedurre dalla Costituzione o quello che vi è scritto – alla lettera – o quello che il legislatore intendeva al tempo in cui la Carta e gli emendamenti furono approvati. Insomma, l’originalismo è un vincolo all’attivismo giudiziario, limitandone il mandato. E nella Costituzione americana, così letta o intesa, non vi sarebbe nessun diritto all’aborto. Del resto, neanche dalla Costituzione italiana, carta più moderna di quella americana e aperta a regimi interpretativi poco rigidi, potrebbe dedursi un 'diritto' all’aborto.

Ma cosa accadrebbe se la bozza del giudice Alito diventasse definitiva? Che l’aborto diverrebbe illegale? Irrimediabilmente illegale? Niente affatto. L’implicazione diretta è che l’aborto non avrebbe più protezione costituzionale; gli Stati, quindi, potranno legiferare senza vincoli, in qualunque direzione questi vorranno muoversi. Ci sarebbe certo disomogeneità: in Texas l’aborto diverrebbe illegale, se non in caso di eccezioni precise e procedimentalizzate, mentre a New York si potrebbe continuare ad abortire anche nella fase più avanzata della gravidanza. Questa sperequazione potrebbe – e probabilmente dovrebbe – essere sanata da un’azione legislativa del Congresso, qualora o a maggioranza semplice (forse) o a maggioranza qualificata con legge costituzionale (di sicuro) l’organo legislativo decidesse di regolamentare la materia attraendola alla sua giurisdizione. Giurisdizione federale, appunto.

Chi scrive crede nel diritto, nell’importanza della forma e delle procedure. Si crede altresì che la democrazia debba realizzarsi principalmente tramite il mandato legislativo, dal popolo conferito ai suoi rappresentanti. E si vede con sospetto una delega aperta al potere giudiziario (anche se di rango costituzionale), incaricato di interpretare il diritto secondo la morale dei tempi senza riferimenti oggettivi; questo schema era stato ipotizzato da Platone nel Consiglio Notturno delle Leggi ed esiste nella realtà politica attuale del Consiglio dei Guardiani in Iran. È un modello da rigettare, quale che sia la visione valoriale e filosofica che il diritto oggettivo voglia incarnare. Se l’America vorrà l’«aborto costituzionale» dovrà fare i conti con il suo federalismo e le maggioranze richieste perché quel diritto – se di diritto si tratta – venga attuato nella forma dovuta, senza che quel fatto giuridico continui a perpetuarsi dal peccato originale di un’invenzione interpretativa. Purtroppo, chi grida allo scandalo esemplifica un limite culturale di un certo progressismo americano (ed europeo), troppo concentrato negli obiettivi e rischiosamente sempre meno attento alle procedure. Un progressismo, anche accolto da una certa destra illiberale, che non capisce che forma e procedura sono la prima e necessaria garanzia di libertà e giustizia. Per tutti.

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