mercoledì 13 maggio 2020
La pandemia ci insegna che le strategie sanitarie hanno bisogno di un approccio integrale
L’emergenza coronavirus ha mostrato la fragilità delle società più avanzate e la necessità di tutelare tutte le specie e l’ambiente naturale nel suo insieme

L’emergenza coronavirus ha mostrato la fragilità delle società più avanzate e la necessità di tutelare tutte le specie e l’ambiente naturale nel suo insieme - Ansa

COMMENTA E CONDIVIDI

La pandemia virale che ha investito l’intero pianeta con conseguenze così drammaticamente superiori ad ogni ragionevole previsione, sta facendo riflettere sulla capacità dei sistemi sanitari di far fronte a simili emergenze. Ma nel momento in cui si sta affrontando la Fase 2, quella cioè in cui si riprendono alcune attività sociali e produttive e si gettano le basi per una convivenza probabilmente lunga con i rischi del virus Sars–CoV–2, occorre non dimenticare alcuni altri importanti aspetti. Primo fra tutti le trasformazioni del quadro epidemiologico e dei bisogni dei pazienti e delle famiglie; e in secondo luogo la disattenzione registratasi fino a oggi per lo stato di salute del pianeta e delle specie animali che lo abitano, inclusa quella umana.

Per quanto riguarda il primo aspetto, sono noti ed evidenti i risultati raggiunti in Italia in termini di allungamento della vita (10 anni di vita in più in 40 anni), ma è da tempo che gli esperti parlano di transizione epidemiologica e di aumento delle patologie croniche come una criticità importante da affrontare con maggiore impegno. Per citare uno dei contributi più rilevanti, “La Tempesta Perfetta”, testo pubblicato nel 2015 da un gruppo di ricercatori guidato da Walter Ricciardi, indica una serie di sfide urgenti in tema di salute umana e di sua tutela: invecchiamento, cronicità, disabilità, risorse scarse, disuguaglianze, mancanza di coordinamento e di visione strategica nazionale, inefficienza gestionale, stili di vita inadeguati. E lo fa richiamando contributi precedenti importanti, come quelli di Censis, Ceis e Cergas–Bocconi.

Su questi aspetti il dibattito tra esperti ed istituzioni è aperto da tempo nel Paese, e da qualche anno a questa parte si sono notati segnali positivi in vari contesti territoriali, ancora deboli ma significativi, nella direzione dell’aumento delle risorse finanziarie e di personale destinate al territorio e alle cure domiciliari e di una attenzione crescente nei confronti delle patologie croniche e delle disabilità. Ancora insufficiente, se non del tutto assente, è invece la consapevolezza rispetto ad alcuni altri importanti elementi di rischio per la salute, che vengono ora a galla in maniera drammatica di fronte alla pandemia di Covid–19. E come spesso capita in questi frangenti, la sottovalutazione è culturale, prima ancora che scientifica e politica.


Dobbiamo affrontare questioni come l’invecchiamento, la cronicità, la disabilità, le disuguaglianze o gli stili di vita inadeguati con una strategia che riesca ad ampliare il nostro sguardo sul mondo

La “tempesta sanitaria” che non ci aspettavamo ci pone infatti di fronte al fatto che le patologie infettive e trasmissibili non costituiscono un rischio solo per i Paesi meno sviluppati, con condizioni critiche in termini di igiene e sanità pubblica, in quanto questo virus sta attaccando in maniera velocissima e grave zone e popolazioni ad altissimo livello di sviluppo, economico, sociale e sanitario. Da cui la conseguenza che il fattore, che negli studi internazionali più recenti di epidemiologia e sanità va sotto il nome di “doppio carico di malattia” ( double burden of desaese), e che segnala la crescita rapida e densa di criticità nell’ambito delle patologie croniche accanto a quelle acute, non è più sufficiente a descrivere le sfide che abbiamo di fronte in tema di salute.

La pandemia ha reso il quadro epidemiologico ben più complesso, un quadro che potremmo definire in maniera sintetica, e riprendendo la formula del doppio carico, come un carico di malattia triplo o quadruplo. Il terzo carico è infatti dato dalla recrudescenza delle patologie da virus, di cui il Covid–19 è l’esempio più recente e più grave. Ed un quarto carico è quello delle sfide che si verificano nella sovrapposizione tra patologie infettive, vecchie e nuo- ve, ed altre patologie acute e croniche. Sfide che si presentano in tutta la loro gravità nei decessi da coronavirus delle ultime settimane, nella strage di anziani cui stiamo assistendo e negli intrecci patologici tra virus ed altre malattie che, in alcuni individui appartenenti a fasce di età più giovani, hanno reso il quadro clinico di queste persone molto complesso e in qualche caso difficile da affrontare.


Il “doppio carico di malattia” è stato superato e oggi il quadro epidemiologico è diventato più complesso

Ma la pandemia ci ha posto di fronte a un’altra sfida relativamente inaspettata, di tipo eminentemente culturale: la consapevolezza, drammaticamente esplosa, della necessità di prendere sul serio gli studi di ambito biologico, biomedico e biosociale che da tempo indicano i rischi insiti in uno stravolgimento degli equilibri naturali, per il pianeta, per gli animali e anche per l’uomo. È il dibattito sul cosiddetto Antropocene, termine poco conosciuto fino a poco tempo fa, benché coniato già nel secolo scorso in ambito biologico e chimico, e che oggi ci appare in tutta la sua pregnanza rispetto all’esplosione proprio nelle aree geografiche più sviluppate del globo di una emergenza virale. Secondo questo approccio infatti le emergenze virali sono il portato di un predominio della specie umana sul resto del globo. no dei contributi più recenti e più chiari, per comprendere i rischi per la specie umana dell’iper sfruttamento del pianeta e delle sue risorse naturali, è il libretto pubblicato da Ilaria Capua nel 2019, e intitolato “Salute circolare”, con il quale si riepiloga la storia del rapporto tra medicina e ambiente nei secoli. È difficile immaginare un ragionamento più esplicito e comprensibile sul fatto che l’ambiente non è qualcosa di esterno a noi ma «in realtà ci siamo immersi, fa parte di noi», e che quindi se trattiamo così male «il nostro mega sacco amniotico», se avveleniamo, invadiamo e consideriamo come nostra proprietà esclusiva l’ambiente, non dobbiamo meravigliarci se poi la nostra sopravvivenza viene messa in pericolo.

Ma non sono mancati nel corso degli ultimi anni molti altri contributi, sviluppati nell’ambito di discipline diverse, che hanno tentato di far capire che la salute è un processo sistemico che include il benessere della natura e del mondo animale. Il riferimento è ad esempio agli studi sociologici del Censis negli anni 80 sulla salute in Italia, nell’ambito dei quali ve- niva proposto il concetto di “Sistema psico– socio–ambientale” per definire la realtà evolutiva e integrata della salute umana. Il riferimento va anche ad alcuni esperti di etica ambientale e urbana, come Corrado Poli (Politica e natura 2017), che hanno indicato il problema ambientale come un problema di importanza bioetica fondamentale. L’approccio alla questione che va sotto il nome di green washing, vale a dire l’introduzione nel sistema produttivo e urbano di alcuni interventi di mitigazione dell’inquinamento e della distruzione ambientale a scopo di marketing, non è sufficiente, secondo questa linea di pensiero, a promuovere una sostenibilità effettiva e globale dello sviluppo umano e delle sue potenzialità.

Ma anche filosofi e sociologi teorici, particolarmente attenti, hanno più volte richiamato l’attenzione, alla fine del secolo scorso e a inizio di quello attuale, sui rischi per la specie umana della distruzione dell’ambiente fisico, naturale ed animale. Certamente lo ha fatto e continua a farlo Serge Latouche, economista e filosofo, fondatore del Movimento anti utilitarista nelle scienze sociali (Mauss) e sostenitore del principio della decrescita come approccio anti economicistico allo sviluppo. Ma lo stesso Jean Baudrillard, filosofo e sociologo tra i più importanti degli ultimi decenni, nel lontano 1992 scriveva nel suo “L’illusione della fine” che «il peggio non è che siamo sommersi dai rifiuti della concentrazione industriale e urbana bensì che noi stessi siamo trasformati in residuati». A Baudrillard era chiaro già allora che «la specie umana, mirando all’immortalità virtuale (tecnica) (...) sta perdendo la sua particolare immunità».

Come tutti questi autori, ed altri ancora, sottolineano, ciascuno dal proprio angolo di visuale, il problema è allora principalmente quello di guardare al futuro con lungimiranza e di confrontarsi tra discipline diverse e relativi studi e risultati. Tornando alle parole di Ilaria Capua, dobbiamo superare la iper specializzazione e la separazione tra ambiti di studio diversi, come avviene nel Centro da lei diretto in Florida ( One Health Center of Excellence), che si prefigge proprio lo studio della salute di tutte le specie e dell’ambiente naturale nel suo insieme. E dobbiamo mettere a frutto le enormi possibilità scientifiche e tecniche che la specie umana è stata capace di sviluppare per la salute dell’intero pianeta. Solo così potremo promuovere anche la nostra di salute.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI