Questo Paese in crisi e i nostri giovani
martedì 20 agosto 2019

A forza di delusioni, gli italiani – si parla di tutti noi – hanno l’aria di essere diventati più scettici e disillusi, se non addirittura un po’ cinici. Il che per un popolo tradizionalmente ottimista, fiducioso che "in qualche modo andrà tutto bene", configurerebbe un’autentica mutazione antropologica. Le convulsioni della politica – che tornano moleste e inesorabili come l’anticiclone africano –, con l’evidente incapacità di offrire una prospettiva di ampio respiro a un Paese da troppo tempo a corto di fiato, sembrano condannarci a non poter scorgere cosa ci attende domani se non un altro giro di polemiche, il consueto spettacolo di una reciproca, arroventata ostilità politica che, messa in scena un giorno e un altro ancora, ha come inevitabile esito l’avvitarsi di crisi dagli esiti nebulosi.

Si può chiedere a una comunità di avere ancora la forza di affidarsi e di sperare quando l’incertezza diventa abituale compagna di strada, e sulla scena pubblica il futuro è prevalentemente coniugato con interessi di fazione, consensi da mietere o recuperare (senza andar troppo per il sottile sugli argomenti e le parole per riuscirci), promesse delle quali nessuno onestamente può garantire l’esito?

Chi come noi continua a sentirsi parte di quelli che sperano comunque e che al futuro guardano come a una realizzazione condivisa tra tutti, pensandoli come la maggioranza tenacemente all’opera per tenere in piedi la casa comune, osserva che in questo clima rissoso e incerto (del quale è figlia anche la crisi di governo che oggi arriva al suo approdo istituzionale in Senato) si rischia di fare imperdonabile sperpero delle ricchezze morali di cui l’Italia è ancora certamente custode: l’altruismo, la creatività, la propensione a pensare in grande, la fiducia malgrado ogni evidenza, la capacità di prodigarsi per il prossimo più bisognoso, lo spirito comunitario... Una delusione dopo l’altra, il nostro giacimento di speranza rischia di impoverirsi drammaticamente. Siamo proprio certi che questa riserva aurea sia infinita, che la troveremo sempre pronta all’uso in caso di bisogno, e non invece essiccata, o di smarrirne la strada?

Del discorso che ieri il cardinale Bassetti ha rivolto al 40° Meeting di Rimini merita, tra le altre, di custodire una parola: il presidente della Cei ha parlato infatti di «talenti», che «una società vecchia e immobile» – «vecchia non solo per l’età quanto per lo spirito», affetta da «uno spirito di corporazione e conservazione che fa sopravvivere consorterie e oligarchie, amicizie e spirito di clan» – tende a lasciare sotterrati, decretandone di fatto l’inservibilità. Il cardinale parlava di giovani, cioè del futuro di tutti.

E nel mezzo della nuova seria e grave turbolenza politica la sua riflessione su una generazione di donne e uomini «ricchissimi» di «talenti» che però «non vengono riconosciuti», lasciando sospeso in un limbo indefinito chi chiede solo la libertà di poterli esprimere, suona come la metafora di un Paese che ha l’accorato bisogno di una speranza affidabile in cui credere per tornare a costruire futuro senza sentirsi indotto fino a nuovo ordine al piccolo cabotaggio del proprio interesse gelosamente difeso dalle insidie dell’incertezza, del disincanto, del rifiuto dell’altro e persino dei nostri figli e nipoti, i ricchi di futuro che riduciamo a poveri di oggi e di domani.

È questo il clima tossico di «non senso esistenziale» nel quale crescono i giovani, i primi tra tutti noi che «non riescono a intravedere il futuro», questa la delusione di «moltissimi ragazzi che hanno voglia di mettersi in gioco, che hanno desiderio di mostrare le proprie capacità e di applicare quello che hanno studiato, ma hanno perso la speranza di trovare un ruolo e un posto in questa società avida e arida».

Qualcuno pensa davvero a loro, la nostra avanguardia del domani? E non è forse questa anche un’immagine degli italiani che non vedono l’ora di tornare a spendere i talenti dei quali si sentono ancora ricchi il cuore e le mani, e che invece sentono di dover stare sempre guardinghi, in attesa che si diradino le nubi cronicamente addensate sui nostri giorni? «È triste quel Paese che non sa dare speranza ai propri figli – ha detto ancora Bassetti, chiamando a responsabilità un’intera classe dirigente –. È triste quel Paese che non sa progettare il futuro». Ci pensi bene, adesso, chi ne ha in mano le sorti: è su questo che si decide il nostro destino comune.

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