Il vero punto: la non fluidità
sabato 18 febbraio 2023

Se Sanremo è una fotografia del Paese, anche a non volerlo prendere troppo sul serio, è una fotografia che va letta. E a una settimana di distanza la lettura può forse essere più profonda. È bene dire subito che, al di là della qualità tecnica dello “scatto” e dell’efficacia scenica e comunicativa del Festival, la fotografia che vien fuori non è granché. Per la qualità che restituisce della “cultura” del Paese. Quanto meno di quella – ed è in realtà tanta incultura – che viene imposta, fa chiasso, pretende ascolto.

Uno dei punti più bassi di questa foto, è la vicenda di un episodio che su queste pagine è stato definito lo «sbaciucchiamento e sbatacchiamento» tra Rosa Chemical e Fedez. Non ce l’ho con questi due giovani impegnati a ritagliarsi uno spazio nello show business con il corpo e tramite il corpo, di cui addottorati semiologi sapranno certo dirci tasso di “modernità” comunicativa e potenziale “liberatorio”. Per le cose che dirò, presumo più serie, che sottostanno a quel bacio e a quello struscio, non ne faccio una questione “moralistica”: lascerebbe il tempo che trova, e poi anche in me prevale la tristezza. Pure per loro: per questi due giovani eroi dell’aggiornamento o della liberazione dei costumi, per altro non isolati sul palco sanremese tra altri baci, scoperture epidermiche più o meno classiche, giovani natiche in calze a rete, in un’iconologia del corpo dove tutto si tiene, e che non scandalizza (quasi) nessuno. Né anziani artisti con una grande storia alle spalle, né un pubblico in sala la cui età media era più o meno da pensione: in fondo genitori e nonni che vedevano in scena figli e nipoti, coloro che hanno davanti tutti i giorni, o almeno i loro idoli. Il punto è proprio questo: che non si scandalizza più nessuno, anche se i «fratelli d’Italia» dell’Inno di apertura continuano a cantare la loro disponibilità a morire per la patria chiamata in scena (quelli del governo un po’ meno, ma anche qui maiora premunt quanto a ciò che mi preme di dire). A tal punto non si scandalizza più nessuno, che una vecchia volpe come Fiorello lo invoca quasi lo scandalo, e ovviamente da quei “bacchettoni” di “Avvenire” che devono protestare già il giorno dopo e dedicare all’evento la prima pagina… Se no, che gusto c’è? Se no, l’effetto business communication dello show dove va a finire?

Ecco, a mio avviso lo scandalo è questo, che non si scandalizza più nessuno della postura ormai genitale della cultura giovanile presentata e (più o meno) cantata in tv, e che viene da lontano con il suo profumo: dall’“uomo che non deve chiedere mai” ai miti greci e alla loro statuaria, che promuovono l’essenza di moda per le ascelle. Tra iscrizioni sul proprio corpo per dargli un’identità percepita, anche a sé stessi, che attiri l’attenzione, e culto di una decadente sessualità variamente orientata (e sia chiaro nell’orientamento non c’è nessun reato da reprimere, se non quelli del disordine aggressivo e magari del cattivo gusto che valgono anche per gli orientamenti binari prevalenti!). Tutto per un abbarbicarci disperato al “godimento” individuale, come l’ultima cosa che nell’alienazione generale delle nostre esistenze non ci possono togliere, ci resta in proprio, o così crediamo, e così ci definisce.

Sul palco della cultura giovanile proposta a Sanremo è andata in scena la crisi di identità della nostra cultura, il suo futuro o il suo non-futuro. Perché questo è il punto: la vera trasgressione a Sanremo sarebbe stata una giovane coppia, neanche tanto glamour, bastava carina. Una madre e un padre che si baciassero in modo sorridente, attorniati dai loro tre bambini. Tre, il numero di figli a coppia che da qui ai prossimi vent’anni almeno potrebbe evitarci il collasso demografico del Paese (e del Welfare), da qui a fine secolo dimezzato nei suoi abitanti.

Davvero c’è bisogno, con questi grilli per la testa che dovremmo avere, della promozione “liberatoria” del gender fluid? Che per altro non ne ha nessun bisogno, né mediatico, né politico, se va in onda con il consenso plaudente o indifferente, o rassegnato a come vanno le cose, di uno share del 66%. Quando capiremo, e magari anche a sinistra, che non è la differenza di genere a dover essere promossa a pari diritti e dignità (diritti e dignità che fortunatamente e in forza di decenni di lotte ha già guadagnato, anche se – guarda caso – molto poco sul terreno della differenza genitoriale femminile…)? Quando capiremo che il nuovo-vecchio punto è la differenza di classe, la non fluidità per milioni di italiani e di famiglie tra pranzo e cena, tra fitto e bollette, anche quando hanno la fortuna di “godersi” un lavoro? Ecco io credo che dovrebbero essere queste le lacrime, non mie o tue, ma nostre, di noi tutti, da cantare. E per chiudere con un barbaglio di speranze, due momenti di questo Festival restano nella mente: il rifugiarsi di Madame, una ragazzina, reduce da polemiche amare, nelle braccia di Amadeus, un’espressione umana di rapporto tra le generazioni; e la presenza sul palco di Pegah, attivista iraniana, con Drusilla Foer. Questa sì capace di presentare in modo civile e poetico la libertà di essere noi stessi cui tutti abbiamo diritto, e dappertutto, nel mondo.

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