giovedì 2 gennaio 2014
Fra difficoltà tecniche, nodi costituzionali e tatticismi.
di Marco Olivetti
COMMENTA E CONDIVIDI
Anche nel messaggio di fine anno, il presidente della Repubblica ha richiamato l’attenzione dell’opinione pubblica sulla riforma elettorale, da lui più volte auspicata negli scorsi anni, e in particolare dalla sua rielezione a oggi. L’auspicio di Giorgio Napolitano arriva oltre un mese dopo la storica sentenza della Corte costituzionale, con la quale le linee portanti della legge n.270/2005, ormai nota come Porcellum, sono state consegnate alla storia del diritto. Dal 4 dicembre, tuttavia, poco è cambiato: la necessità di una nuova legge elettorale è più che mai evidente, ma corposi macigni si ergono sulla strada che dovrebbe condurre alla sua adozione. I macigni sono almeno tre: uno tecnico, uno costituzionale, uno politico.Anzitutto la difficoltà "tecnica". Trovare un accordo su un nuovo sistema elettorale è impresa oggettivamente ardua: la più importante delle leggi politiche, pur non avendo natura formalmente costituzionale, è un tassello decisivo dell’ordinamento di ogni Stato democratico. E anche un esercizio dilettantistico di comparazione insegna che non esiste una soluzione perfetta, valida per ogni tempo e ogni luogo. Se, infatti, una legge elettorale proporzionale pura può apparire più conforme a canoni elementari di giustizia (dando "a ciascuno il suo"), non si può negare che essa rischi di produrre frammentazione: e ciò sarebbe pericoloso in un contesto in cui i partiti sono delegittimati e destrutturati. All’opposto, i sistemi maggioritari, che assicurano quasi sempre la formazione di una maggioranza parlamentare, possono rivelarsi sproporzionati se si basano su meccanismi premiali (come quelli del già citato Porcellum) o distruttivi del pluralismo, nel caso dei sistemi a collegio uninominale, con turno unico (Gran Bretagna) o doppio (Francia), i quali funzionano in modo equilibrato solo in presenza di una dinamica bipartitica o bipolare del sistema politico, che in Italia è entrata in crisi negli ultimi anni.La ricerca dovrebbe dunque indirizzarsi verso sistemi misti, che tentino di combinare the best of both worlds (il meglio dei due mondi) e in fondo tanto la legge Mattarella, quanto la legge 270/2005 si orientavano in questo senso. Ma, uscito di scena il secondo di questi due sistemi, anche il primo, nell’attuale contesto tripolare, rischia di non produrre maggioranze omogenee e autosufficienti. Ne segue che le forze politiche dovranno scegliere fra tre modelli: una soluzione di tipo spagnolo, che però penalizzerebbe duramente le forze intermedie e che oltretutto pare difficilmente riproducibile nel contesto italiano; un sistema di tipo tedesco, che però, pur evitando la frammentazione estrema grazie allo sbarramento del 5 per cento, collocherebbe l’Italia in uno scenario proporzionale a molti non gradito; un sistema simile al Porcellum, ma con un doppio turno nazionale (suggerito fra l’altro dalla Commissione sulle riforme costituzionali nominata dal governo Letta l’estate scorsa), che garantirebbe la rappresentanza delle forze minori che superassero uno sbarramento ragionevole e incentiverebbe la formazione di coalizioni che si confronterebbero nel secondo turno nazionale e assicurerebbe a una di esse la maggioranza dei seggi.Tuttavia, quest’ultimo sistema si scontra con il secondo degli ostacoli prima indicati: quello costituzionale. Se la riforma elettorale può essere condotta in porto con una legge ordinaria, essa non può far fronte al macigno rappresentato dal bicameralismo perfetto, il principale anacronismo costituzionale del nostro Paese, in virtù del quale un governo deve avere la maggioranza sia alla Camera sia al Senato. Oltretutto, una riforma elettorale che introducesse il doppio turno di coalizione potrebbe funzionare solo con una riforma del bicameralismo, che trasformi il Senato in una Camera delle regioni, eletta indirettamente, e svincolata dal rapporto di fiducia col governo, come accade in quasi tutti i sistemi bicamerali d’Europa. Solo così si eviterebbe il rischio di attribuire il premio di maggioranza a coalizioni diverse nelle due Camere (o, comunque, il rischio di maggioranze strabiche nelle due assemblee, com’è accaduto dopo le elezioni del 2013). In effetti, la necessità di affiancare alla riforma elettorale un sostanzioso aggiornamento della Costituzione era alla base dell’impostazione data a questo tema dal governo Letta, ma lo sgretolamento delle larghe intese rende più problematica la riforma del bicameralismo, anche per il rischio che il Senato si opponga a una ridefinizione radicale del suo ruolo.I due macigni ora evidenziati, tuttavia, rischiano di pesare meno del terzo: la devastante propensione della classe politica italiana al tatticismo, vale a dire a quell’approccio che guarda non alla sostanza dei problemi ma ai vantaggi e svantaggi che le singole forze politiche ne possono ricavare nel brevissimo periodo. Questo approccio negli scorsi decenni ha sfigurato le questioni elettorali e oggi si manifesta nei calcoli sulla data delle prossime elezioni, sulla sopravvivenza dell’attuale governo o sul consolidamento delle nuove leadership di partito. In quest’ultimo mese anche i nuovi protagonisti della politica italiana (da Renzi ad Alfano a Grillo), a più riprese, hanno dato la sensazione di guardare alla legge elettorale anzitutto da un punto di vista tattico. È evidente, però, che se questo atteggiamento non cambierà e se non emergerà qualche forma di "spirito costituente", sia pure a oggetto limitato, la riforma del sistema di elezione e del bicameralismo (alla quale ultima è legata anche la riduzione del numero dei parlamentari) finirà, come in passato, su un binario morto. Sarebbe un fallimento destinato a pesare su una classe politica già in crisi, e per l’Italia un danno assai grave.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: