giovedì 1 febbraio 2024
Dall’Europa agli Stati Uniti, dall’America Latina all’Australia, cresce il fronte dei Paesi che si stanno dotando di leggi che considerano eutanasia e suicidio assistito come trattamenti clinici
La morte a richiesta nel mondo, un "atto medico" come un altro
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L’approdo di disegni di legge in alcuni Consigli regionali (il Veneto l’ha già respinto) ripropone il tema delle regole per la depenalizzazione condizionata del suicidio assistito. Assuntina Morresi cura per “è vita” una serie di articoli – su carta e Avvenire.it – sugli scenari in cui si inserisce il fronte italiano.

In ordine di tempo, è stato Cuba l’ultimo Paese ad aver dato il via libera a una legge sull’eutanasia: lo scorso 22 dicembre l’Assemblea nazionale popolare ha votato all’unanimità un testo che «riconosce il diritto delle persone di accedere a una morte dignitosa, attraverso l’esercizio di determinazioni di fine vita, che possono includere la limitazione dello sforzo terapeutico, delle cure continue o palliative e delle procedure valide che mettono fine alla vita ». La legge entrerà in vigore una volta approvati i regolamenti sulla sua applicazione.

Dopo la Colombia, Cuba è il secondo Paese in America Latina a consentire la morte assistita, mentre il Nord America vede il Canada e 11 giurisdizioni negli Usa in cui morire su richiesta è legale (Oregon, Washington, District of Columbia, Montana, Vermont, California, Colorado, Hawaii, Maine, New Jersey e New Mexico). Ammettono poi la morte medicalmente assistita tutti gli Stati australiani (Victoria, South Australia, Western Australia, Tasmania, Queensland e New South Wales), insieme alla vicina Nuova Zelanda. E infine in Europa la morte su richiesta è consentita per legge in Olanda, Belgio, Lussemburgo, Svizzera, Spagna e più di recente Portogallo, mentre ci sono sentenze che depenalizzano in diverse circostanze la morte procurata in Germania, Austria e Italia. Fra le norme in vigore alcune prevedono esplicitamente solo il suicidio assistito mentre altre regolamentano anche l’eutanasia, ma la differenza fra le due fattispecie è solo procedurale, e serve a distinguere chi compie l’azione finale, quella di somministrare il prodotto che provoca la morte: un operatore sanitario, solitamente un medico, se si parla di eutanasia, oppure la stessa persona che vuole morire, nel caso del suicidio. Non c’è uno scarto sostanziale fra i due percorsi, tanto che le leggi più recenti tendono ad abbandonare gli storici termini “eutanasia” e “suicidio assistito”: ad esempio in Canada si parla di Medical Assistance in Dying (Maid, Assistenza medica al morire), mentre in Australia c’è la Voluntary Assisted Dying (Vad, Morte volontaria assistita).

Ancora più significativa la legge spagnola, in vigore dal giugno 2021: è la Ley Orgánica de Regulación de la Eutanasia (Lore, la legge organica che regola l’eutanasia), con quest’ultima parola, presente nel titolo del provvedimento, che include anche il suicidio assistito. Nel testo, però, si fa riferimento all’espressione «prestazione di aiuto a morire », definita come «azione che consiste nel mettere a disposizione i mezzi necessari a una persona che soddisfa i requisiti previsti dalla presente legge e che ha espresso il desiderio di morire. Detta prestazione può essere realizzata in due modi: 1) la somministrazione diretta di una sostanza al paziente da parte del professionista sanitario competente; 2) la prescrizione o fornitura da parte del professionista sanitario di una sostanza al paziente, affinché lo stesso possa autosomministrarsela, per provocare la propria morte». Come in Canada e in Australia, quindi, anche in Spagna la tradizionale distinzione fra eutanasia e suicidio assistito viene eliminata, sottolineando il nucleo centrale: morire su richiesta. Ma soprattutto la legge spagnola utilizza un termine tipico dei trattamenti effettuati da un professionista sanitario: « Prestazione», dove il trattamento è l’«aiuto a morire».

Quindi l’eutanasia (o il suicidio assistito) diventa, grazie alla stessa legge, un atto medico, che rientra pienamente nel novero dei trattamenti sanitari offerti dal servizio pubblico, cioè fra quelli di cui ogni cittadino ha diritto, a seguito di adeguato consenso informato. Il tutto con un’ipotesi sottaciuta, ma oramai consolidata: l’eutanasia è definita solo in riferimento alle azioni che danno direttamente la morte, ed esclude in ogni caso quelle che la provocano indirettamente, ad esempio la sospensione dei trattamenti, compresi i sostegni vitali come idratazione e alimentazione artificiali. Un’importante “pulizia” lessicale, quindi, nei più recenti testi legislativi, funzionale a eliminare parole connotate negativamente, sostituendole con espressioni più rassicuranti, associate all’assistenza e alla cura, in senso positivo. Ma soprattutto un mutamento terminologico che riflette il nodo concettuale di base: se la morte procurata è uno degli atti medici possibili ed esigibili, diventa qualcosa che si può indirizzare e controllare come ogni altro atto medico, e non suscita più i timori dell’imprevedibile e dell’ignoto.

La morte medicalmente assistita si può raccontare e descrivere al pari degli altri trattamenti sanitari, si può gestire mediante esperti che hanno messo a punto procedure validate, grazie anche alle conoscenze tecnologiche e farmacologiche più avanzate: per questo è possibile pensare di poter decidere della propria morte, così come lo si fa per ogni percorso di cura, nell’illusione di spazzare via il mistero che da sempre la circonda. L’eutanasia, quindi, non è più una risposta a un antico dilemma dell’etica medica – se è lecito porre fine ai patimenti di malattie inguaribili procurando la morte richiesta dal malato sofferente – ma diventa una questione antropologica: il diritto di scegliere quando e come morire.

1-continua

#percorsidifinevita

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